romano notari

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Se è vero com’è vero che la grafica, oltre ad essere una forma di raffinata ed alta espressione d’arte, e la più diretta, è utile alla conoscenza di un artista nella genesi della sua opera, il disegno rappresenta lo stadio più vero, più personale, spesso anche più intimo, attraverso il quale è possibile arrivare a conoscere nella maniera più aperta il pittore o lo scultore. Il disegno ha infatti una funzione preziosa, diremmo indispensabile, per la lettura e la comprensione di un artista. Nel caso di Romano Notari, il disegno rappresenta una parte così importante di tutta la sua vasta attività, che non si può fare a meno di conoscere il grande, meraviglioso disegnatore, per poterne comprendere tutta la lunga e felice vicenda. Notari, come tutti gli artisti autentici, riconosce al disegno un’importanza fondamentale, perché è, infatti, la sua esatta ed esigente stenografia attraverso cui si esprime nei suo viaggi fantastici che, successivamente, si tradurranno in pittura. L’inizio di un ciclo, di un nuovo progetto-tema, è sempre disegno ed ecco perché, visitando la sua casa-studio, che sarebbe più esatto chiamare studio-casa, a Campello sul Clitunno, nel cuore dell’Umbria, a metà strada tra la reclamizzatissima Spoleto e l’operosa Foligno, si rimane a dir poco meravigliati nello scorrere centinaia di fogli, la maggior parte dei quali non sono appunti occasionali, ma disegni completi di composizione (quelli che gli italiani del Rinascimento chiamavano “ben compiti”) che sono già espressioni conclusive, definite, determinate, cioè, opere compiute. Notari disegna sempre. Il disegnare, per lui, è come mangiare, dormire, una necessità anche fisiologica, ed è scorrendo il grande diario della sua opera grafica, che si può andare a ritroso nel tempo e risalire a tutti i traguardi tematici di una vicenda artistica che ha ormai superato trent’anni. Un inchiostro del 1953, di notevole forza espressiva, non è altro che il “modellino” in scala, di un suo quadro, e ci offre la felice sensazione di una pienezza ottenuta con la massima economia di mezzi. Così altri fogli che risalgono agli inizi degli anni sessanta, i “Processi”, pur non possedendo nessuna delle risorse della preparazione pittorica, né velature, né impasto, nessuna delle ricche variazioni del pennello o della spatola, hanno la profondità, lo spessore, la luce dei dipinti.

    E dopo i “Processi”, i “Sospetti d’invasione”, “L’ora solare”, e siamo alla soglia degli anni settanta, dopo che i suoi disegni sono stati esposti alla Biennale di Venezia, riscuotendo importanti, autorevoli consensi. Con il ciclo dedicato all’“Ora solare” si avvia a conclusione un lavoro, durato diversi anni, durante il quale la ricerca del solitario e riservato artista umbro si è sviluppata lungo un percorso puntualizzato da matrici ovoidali, da allusioni ornitologiche, da crisalidi percorse da brividi germinativi, da mostri appartenenti ad un mondo sconosciuto e misterioso. É una lenta ma ben articolata metamorfosi che si svolge secondo i canoni del divenire espressivo che è poi un “continuum” coerente diretto ad affermare la supremazia del figurale umano nel senso più aperto. Il sole, la più grande fonte di calore, è anche e soprattutto fonte di vita, del divenire di tutti i processi creativi e il lungo, originale racconto di Notari prosegue fino al ciclo che, iniziato con i “Monumenti”, culmina con i “Monumenti a Ledacigno”,  gli “Amori trasparenti”  e gli “Amori solari” nei quali la rappresentazione dell’uomo, della natura e del paesaggio diventa un tema che l’artista non abbandonare più.

    Anzi, negli anni successivi, la simbologia notariana cresce, si fa più alta, recuperando valori antichi che aumentando di tensione spirituale, fino a raggiungere, negli ultimissimi tempi, con il tema dell’“Apparizione dello Spirito”,  vertici assoluti. I disegni, la cui produzione va sempre aumentando, a conferma della grande importanza che ad essi l’artista assegna, vengono eseguiti su fogli sempre più grandi, alla stessa guisa di colui che, impegnato nella realizzazione dell’affresco, ne prepara in precedenza i canoni. La meditazione cosmica sull’amore, inteso come arto creativo in senso universale, Romano Notari l’ha rappresentata servendosi dell’antico tema mitologico della Leda e i disegni di quel periodo, pieni e corposi, sono altrettanti esempi di magistrale senso della composizione e del movimento. Così come il più recente lavoro imperniato sul mistero del Vangelo, costituisce un’ulteriore prova di fertilità inventiva con risultati che sono un nuovo culmine stilistico. “Natività”, “Calvario”, “Resurrezione”, rappresentati con mano delicata eppure con grafia decisa, sono momenti emblematici del grande mistero dell’amore universale, l’amore trasparente, quello che, forse, non appartiene del tutto al genere umano e che perciò trascende dai valori terreni per collocarsi nel sublime.

    E protagonista, ancora una volta, come lo è da sempre, è l’uccello annunciatore di eventi eccezionali, uccello-dio del rapporto amoroso di Leda, l’uccello come presenza angelica, come “centro di cosmicità” (come a suo tempo ha rilevato acutamente Roberto Tassi) come focolaio di vita, come adorato e, nello stesso tempo, adoratore, punto della metamorfosi del divino nel terrestre, momento di fusione tra il materiale e lo spirituale. L’uccello, è forse il dato di partenza, il simbolo che per primo è entrato nel grandioso racconto di Notari. Fin dai primissimi disegni (1952-1953) il riferimento ornitologico ha assunto una posizione centrale. A ben riflettere, è proprio attraverso questa immagine-simbolo che Notari, pur nella drammacità di cui è nutrita la maggior parte dei suoi lavori, vuol dare corpo al suo messaggio di pace, di libertà e di amore. Ed è proprio i simbolismo più vero, con il suo dominio incantato, a guidare l’artista che alla linea continua con andamento ovalizzante, ai magistrati effetti chiaroscurali ha aggiunto, ultimamente, soavi rabeschi che arricchiscono la composizione e la portano a livelli eccezionali. L’occhio dell’artista spazia al di là del presente, è come già dentro un futuro che estrae dal suo interiore e ce lo propone come racconto che di attuale ha la materia ed i mezzi adoperati per esprimersi, ma si tratta di un racconto che pur partendo dal dato convenzionale appartenente al passato, è già un inizio di futuro: la via del sole, quella dove la libertà e l’amore sono certezza eterne.

 

Giovanni Maria Farroni, Notari, Edizioni L’Incontro, Agugliano 1983.

 

 

Sull’opera pittorica di Romano Notari esiste una cospicua e analitica letteratura i hanno contribuito parecchi critici italiani, scomparsi e viventi: da Francesco Arcangeli a Roberto Tassi, da Luigi Carluccio a Gianfranco Bruno, da Marco Valsecchi a Enrico Crispolti, da Guido Ballo a Dante Isella. L’esegesi della pittura di Romano Notari è ricca, multiforme, persuasiva sia sulla interpretazione della sua concettualità che della sua espressività stilistica.

    Per usare una imperdonabile scorciatoia, diremo che la critica dell’opera del pittore umbro insegna che siamo di fronte a una visione esistenziale e cosmica — sia lirica sia spirituale — in continua trasformazione (“di metamorfosi in metamorfosi” procede Notari, ha scritto Dante Isella): visione che scaturisce da una contemplazione mistica del mondo” (Roberto Tassi). Siamo di fronte a una espressività figurativa che ha nella luce la sua stessa origine. Parlando del ciclo “Monumento a Leda-cigno” del 1977-1978, sempre Roberto Tassi afferma: “la luce, precipitando dalle profondità del ciclo solare, fluttuando sulla terra, invade e crea ogni fantasma, ogni figura e ogni spazio”. D’altra parte, l’espressività cromatica ha nei gialli “d’ambra e di zolfo” la sua originalità e autonomia linguistica, la sua splendente caratura affabulatrice. Più conosciuti e più circostanziatamente valutati, i dipinti singoli e ciclici (olii e tempere) hanno finora tenuto in ombra i lavori grafici, chine e pastelli, di Romano Notari. Può essere questa un’occasione per inserirli nell’attenzione sulla globalità della sua opera.

    Se è vero che la pittura rappresenta la parte largamente predominante del suo lavoro è forse altrettanto vero che i disegni a inchiostri di china, le pagine scritte a matite colorate le tempere realizzate su carta (che insieme formano, con scelte di opere che vanno dal 1979 al 1985, il corpo della nostra osservazione) sono ben più di una attività preparatoria e integrativa. Sono una variante creativa: succosa di novità linguistiche e non avara delle invenzioni metamorfiche che esaltano le invenzioni del pittore, la sua ricerca del mistero esistenziale e cosmico, il suo ancoraggio ad arcani valori della religiosità: dall’“Apparizione dello spirito” alla “Natività”. Parole tra virgolette che sono titoli ricorrenti di questa e di altre mappe del suo lavoro. Probabilmente tenuta dal pittore stesso in un ambito di riservatezza (più per innata umiltà che per attaccamento) l’opera grafica è rimasta ai margini della valutazione critica. Recentemente è stato Gianfranco Bruno — nel suo saggio che apre il catalogo della mostra antologica dei dipinti di Romano Notari organizzata dal comune di Gallarate e appena chiusasi — a definire, con tempestività e opportunità critica, i disegni “acute analisi della progettualità vitale delle forme della natura, simbiosi incandescente tra organicità e immaginario”. La definizione sintetizza appropriatamente l’autenticità rappresentativa dei disegni e dei pastelli di Romano Notari.

    Se nei disegni può mancare o essere meno splendente il grande fiore di luce che fa cadere la sua luminosità sulla scena dipinta, in essi, però, non è meno intenso il trapasso da figura a figura, il loro sdoppiamento o raddoppiamento il loro moltiplicarsi; il loro sorgere e insorgere e pulsante delicato dalle profondità dal cangiare intrecciato delle forme, dall’intelaiatura permanentemente del racconto. Anche e soprattutto nei disegni la visionaria narrazione notariana procede per trasformazioni ed esplorazioni successive, innestando metamorfosi a metamorfosi, gestazioni a gestazioni. La sicurezza, l’eleganza e l’energia del segno rendono ancora più marcante il sondaggio che l’artista conduce nei suoi mondi culturali e nelle sue traiettorie allegoriche.

    L’occhio dell’osservatore si marca per inseguire il vortice di intrecciate immagini, di significanti figure, di emergenti apparizioni, di sequenze allusive e di richiami categorici che progressivamente si presentano alla lettura come in un viaggio alla riscoperta di miti e di certezze, di sogni e di testimonianze antiche e primordiali. Inoltre: se la memoria creativa di Romano Notari si arricchisce di immaginazione con il passare degli anni, la parte grafica della sua opera dimostra la festosa e fastosa ampiezza della sua scala cromatica, profonda e aerea nelle chine nere, squillante composta in quelle rosse, iridata nei momenti ampi e soffice dei pastelli. Alla raffinata “istituzionalità” dei gialli rilucenti, degli arancioni vividi e dei rossi rosati degli olii, si aggiungono, nei pastelli, i ricami vegetali dei verdi e dei marroni, le atmosfere di morbida violenza degli azzurri e dei viola il plastico riverbero dei bianchi. E in queste opere si incontrano anche sfondi naturali, rarissimi nella sublimazione figurale dell’artista: sono certissimamente paesaggi reinventati della francescana Umbria, anch’essi marcati da richiami visionari, ma con riferimenti ad una realtà trascorsa o prossima, insomma possibile, non eidetica. Gli uccelli — indigeni colombiformi soprattutto, ma anche opistòcomi dal regno tropicale — rimangono il simbolo permanente dell’aria del cielo e delle trasformazioni: da essi sbocciano e nascono altre figure o di queste figure sono la allarmata e gioiosa continuazione allegorica. Talora generano a loro volta personaggi allegorici, suscitando vibrazioni da moto perpetuo.

    Ma sempre più s’insediano nelle recenti pagine grafiche le umane persone, spesso accoppiate in nude castità e all’atto d’amore. Vicinanze, intimità e movenze dei corpi riportano alla mente un pensiero di Gianfranco Bruno: “quello che m’innamora del corpo è una certa spiritualità che vediamo in esso”. Pensiero che nello specifico concetto di spiritualità si collega ai significati determinanti della poetica di Notari. Significati che, riassumendo, sono essenze indipendenti dall’esperienza sensibile, staccate dalla realtà organica; il culto cristiano della creatività, l’evocazione misteriosa delle “apparizioni”, il messaggio di pace e di speranza della colomba simboleggiante lo Spirito Santo, l’ancestrale timore suscitato dalle insinuanti tentazioni dei “giardini proibiti”. E tutto interpretato con una tensione “mistica” che continuamente trasgredisce la tradizione iconica religiosa o, per meglio spiegarci, cattolica. Ecco, allora, l’orrore diventa incanto, l’amore tenerezza accoppiata e abbandono innocenti dei sentimenti e della vitalità, la nascita priva di peccato, la passione di un evento dello spirito, la tentazione un’entità connessa alla natura naturale e umana, il mistero di Dio un desiderio teantropico. Romano Notari non accetta il destino senza scampo dell’uomo. La salvezza egli la cerca nell’energia creativa, impensabile senza lo sforzo di superamento della realtà che è la speranza. E la speranza è la capacità stessa di sognare, il dono del sogno, così intimo e così immaginifico in Romano Notari.

 

Eros Bellinelli, Romano Notari, Edizioni Pantarei, Lugano 1985.

 

 

Questi venti dipinti eseguiti da Romano Notari dal 1983 al 1984 specchiano, nella inconfondibile fisionomia, una lunghissima durata, come se l’artista di Campello sul Clitunno ci avesse dato al tempo stesso una scelta perentoria da opere fatte in un decennio e l’immagine istantanea di uno stupore visuale. Nei climi romani (ma direi pure italiani) l’arte di uno dei nostri maggiori pittori della generazione formatasi dopo l’informale è di per se un avvenimento, anche se percepito da fasce di estimatori cogli orecchi non intronati dagli ultimissimi “ismi”, estimatori disponibili a un discorso globale sulle avanguardie e la tradizione, sul quanto di astrazione e di Museo, nelle dosi della fantasia e dell’ispirazione. Già altre volte ho scritto (a cominciare dagli avvii di Romano) che l’artista, di mente e di tavolozza, di dolcezza e di spietatezza di segno, di iperboli sentimental sessuali, di incielamenti di mostri, di estasi bestiali, di magie, fatture, metamorfosi, è unico, non lo si può prestare, né abbinare a nessun altro; tuttavia Notari è a pieno agio nella cultura d’oggi.

    Lungi da me l’idea di farlo vessillifero ante litteram del post moderno, un Mariani, per esempio, che si fosse tuffato in Rothko o in Klein, portandosi appresso, nell’impalpabile alone molecolare, ori e violetti, aranci e rosa di quelle superfici senza figure; portando le sue figure di quasi invisibili cammei negli aloni post informali, essere metà in nostalgia del neo classico e metà del più lirico viscerale. Ma il fatto è che Romano Notari ha preso fin dai suoi primi risultati stupefacenti una rincorsa lunga, è stato molto presto quello che è, mentre, se mai, pittori “colti” e trans avanguardisti, sono quelli che sono, soltanto adesso, un adesso che sovente gli s’allontana, fanno balzi per cogliere frutti dall’orto del Domenichino e da quello di Nolde o di De Chirico o di Savinio e vengon giù con qualche foglia nel pugno.

    Non tutti, certo, perché, alla fine, il processo dell’arte è uno; e tutte le generazioni vi si attengono, se confortate dal talento. Per cui la rincorsa lunga, dove tendenze di una volta, di ieri e di oggi si mescolano, nella grazia dell’operare, può prenderla benissimo Chia o Piruca, a modo suo. Nel caso di Romano Notari egli è stato sempre post-moderno (nel senso almeno di una recita delle sue figure nella rarefatta calligrafia del Museo e dello spazio astratto) come è stato sempre un “trans”, perché, eccetto un breve accostamento, quindici anni fa, alle metamorfosi di Sutherland, non fu mai avanguardista ortodosso, in odore di puntuali espressionismi, cubismi, surrealismi.

    Un’altra delle caratteristiche del pittore umbro è quella della intensità della sua musica dentro il silenzio, tutti i suoi drammi sono nella placenta della fantasia, filigrane di vita, stanno come “Amori spirituali”, “Apparizioni”, “Foglie della passione” e “Giardini proibiti” dentro un glorioso limbo di spazi, fanno Apocalisse ed elegia, primordiali albe di vita e giorni del giudizio sempre in quella utopia dell’iride giallo arancio, quelle atmosfere dove ciascun ammiratore di Notari impara a credere che donne, angeli draghi, cigni, innamorati son fatti della stessa pasta o aria o luce, come si voglia chiamare la materia del silenzio notariana. Si guardi per esempio la “Incredulità”, olio del 1983, quei gialli chiari che fingono la pace profonda e dentro è una vera follia piramidale di figure, sguardi fronti, colombe, scoppi, a crepitare; o quella incredibile danza delle ore, quella trasmigrazione a ritmo di balletto, — Ingres e Schiele, Klimt e Max Ernst con le facce dipinte di zolfo, sul sentiero di guerra — di “Apparizione”, olio del 1983. Certo, ciò che mi diceva l’artista a Campello di questo quadro non è il quadro, eppure le sue parole me lo fanno ancora più amare: “Forse c’è qui la trasfigurazione della vita in resurrezione eterna. Vedi come le immagini stanno in ritmi circolatori che osservano il passare dell’evento di sopra di loro!”. Fatto sta che le parole cadono come un sipario che s’apre, scompare: e resta la scena, in quel monocromo perfetto, così sonoro, che, naturalmente, ci ritrovi tutti i colori.

    In questa galleria di qualità, “La Margherita”, bastano poche opere a fare antologia, e certamente la mostra di Notari spira completezza; ma se i visitatori potessero vedere tante altre opere intermedie, i disegni, per esempio, delle “Foglie della Passione” vicino a questa bellissima “Foglia” (1983, olio 100x80) si farebbero un’idea più ammirata del modo di tessere l’immagine nel segno, fulminante, da scultore d’aria, di Notari. La foglia autunnale color ruggine e oro apre la sua mano a un mondo antropomorfico, simbologie e presenze, affresco e miniatura. Roma accoglie ne “La Margherita” una novità nella pittura di Romano Notari, la fase recentissima e ancora in sviluppo dei “Giardini proibiti” un ciclo che nasce (ma è il suo viaggio dell’esplorazione della creazione cominciato da sempre), dalla visione delle origini della vita. È un paradiso terrestre già perduto, nel senso almeno che la suprema armonia dell’esistere è toccata dalla tentazione e dal peccato, il bene e il male coesistono. Niente di funesto e di catastrofico, e tanto meno di diabolico sotto questo “sole”. Anzi la bellezza dei “giardini” sta proprio nella loro bivalenza tra angioli e mostri, fra la più incielata contemplazione d’amore e la più sfrenata e imbestiata sensualità. La donna serpente pone in dubbio l’atto d’amore, ma l’atto d’amore pone in dubbio il serpente, nel senso almeno che nessuna figura turba e umilia il fruitore. Stanno vicino i mostri dalle teste di drago e le luci germinanti sui grembi delle fanciulle impossedute.

    Dal punto di vista stilistico il ciclo del “Giardini proibiti” si differenzia da quello precedente delle “Apparizioni” in virtù di un differente rapporto tra segno e colore, nel senso che la maggior parte di questi quadri è raggiunta con un’attenzione grafica più prolungata, lo staglio delle figure appare come per una ricognizione plastica, se non fuori della atmosfera, abbastanza più restituita ad uno spazio senza soffusioni. V’è, inoltre come carezza dell’iride, una disponibilità verso gamme per Notari inusitate, i rosa nei verdi i timidi ma non spaesati azzurri, tutti colori che l’artista sembra immaginare, più che aver catturato. Il suo filtro oro arando apre le fitte maglie, ma non abdica certo dal suo trono.

 

Marcello Venturoli, L’inconfondibile Notari, in Romano Notari. Dipinti e pastelli 1983-1984, catalogo della mostra personale, Galleria La Margherita, Roma, 9 maggio-4 giugno 1985.

 

 

Tra le molte indicazioni critiche emerse in questi anni sulla pittura di Notari, una mi pare aver particolarmente centrato il senso complessivo del lavoro dell’artista, prima e oltre la complessa cultura che ha nutrito la sua esperienza. Quando Tassi ha parlato di una possibile “interpretazione alchemica” della simbologia, e più generalmente dell’immagine dell’artista, individuando in essa un processo di identificazione che procede col crescere della forma, ha scavalcato d’un colpo i problemi che si potevano porre di interpretazione analitica e “culturale” dell’iconografia di Notari. Certo l’arte di Notari presenta caratteri linguistici che indurrebbero a farla discendere dall’area surreale, e le molte suggestioni della sua pittura consentono di ipotizzare retroterra storici e letterari dai quali la sua fantasia può aver tratto fruttuoso alimento. Ma credo che occorra ritornare alle lontane origini di Notari per accostare quel suo primo addentrarsi nel muro del silenzio, nella zona cioè dove manifestarsi l’impulso a decantare la materia esistenziale nell’immagine. Là, nella rattratta parete di piccoli encausti immaginati come in un remoto arretramento nel tempo e dello spazio, figuravano forme semplici, di rigidità scheletrica, eppure trascinanti vastità di spazi aerei, e sottili echi di calore naturale. 

    Come fossili a un tempo ed orme del suo inquieto immaginare, questi piccoli dipinti compivano il salto dal noto all’ignoto: dal manifestarsi del reale nell’illusorietà delle apparenze, al suo retrocedere al luogo dell’identità sovratemporale d’ogni cosa ed’ogni sentimento. Penso che s’attuasse allora la vocazione “astratta” di Notari, e cioè la fondamentale disposizione dell’ artista a concepire la pittura in chiave di evocazione, e la forma come l’attuarsi di una totale identità con il proprio immaginare. Notari ha sciolto quell’iniziale arretramento in una salmodia figurale spa[ancatasi per progressive acquisizioni al tempo, ma al tempo tutto intero, come se nella storia dell’uomo s’annullassero di colpo le distanze di fronte all’irradiante verità di apparizioni che resistono, provenendo di lontano, sul muro del silenzio. Ed è singolare che l’uscita alla luce di quel mondo affondato in una primordiale fissità da graffito, avvenisse sui moti di un’intelligenza organica della forma, destituendo di significato drammatico — nel senso almeno del dramma flagrante, di religiosità affacciata sul vuoto assoluto come assoluto, irrepetibile pieno della mente, che l’immagine di Rothko era — pochi modelli di riferimento dell’artista. E dunque la memoria torna insistente su quelle prime prove di Notari, a quel suo originario rapporto alchemico con l’oggetto che ha sciolto come in tramiti di vita organica anteriore al suo essere forma e figura il legame per quella via ritrovato con le matrici del mondo. Ebbene, tra Gorky e Rothko s’agitava una tale, potente ansia estenuata dell’essere organicamente tra moti del sé e del tutto.  

  È stato come se sulle fossilizzate spoglie del mondo, testimonianze d’un passato cui la passione dell’artista restituiva un respiro estremo, si convogliasse una pulsante linfa vitale. Per essa le forme gonfiavano in un’epidermide nuova, vellutata ed incorrotta nel suo preformale stadio di vita. Si sarebbero adagiate poi nella liquidità degli spazi, occhieggianti al fondo di una remota distanza donde lo sguardo proveniva come attutito dalla lattiginosa intensità della luce. Tassi ancora, ha parlato di un’opera di mediazione, che l’artista eserciterebbe, egli “assistente all’opera, al compiersi dell’opera”. Il concetto aiuta a comprendere questo travaso cospicuo, ritorno o arretramento del mondo naturale e organico, corrotto dall’enfasi della contaminazione moderna, ad uno stadio preformale donde germinerebbe una straordinaria fioritura alla luce.

    E invero Notari ha cresciuto, su quel preformale, modelli di divenire e significare, nel suo intento di “assistente” all’opera è andato oltre la primeva attitudine all’identificazione laddove ha osato l’uscita da una solitudine cui la purezza dell’assunto l’avrebbe costretto. Da “ordinatore della creazione” ne è divenuto motore. Sarà difficile che gli scomparti degli “illuminanti” passino senza tracce d’emozione per chi guarda. E certo lo si deve all’intensità di quel trascorrere delle gamme cromatiche splendenti che espongono forme intese a trasformarsi in volti. Molto acutamente Emiliani a proposito dei quadri di Notari ha parlato di una “fissità quasi ferina” un qualcosa che l’artista conduce ad uno “spasmo ottico”, sicché l’immagine conclusa assume, nell’allucinazione dello sguardo, un’intensità totalizzante. Accade infatti che all’osservazione l’immagine lentamente si dilati, e che la presenza figurale si offra come un’entità eidetica dello spazio, come una sintesi incorporea, un trasparente punto focale nell’irradiarsi della dimensione del tutto astratta dell’immagine. Con ciò non voglio dire che la pittura di Notari recida ogni legame con il visibile. Ché anzi l’elemento naturale vi è presente non tanto per esservi rappresentato, ma perché esso appare trasformato in una sorta di processo metabolico dei segni e delle forme, che svelano la loro origine, pur nell’ astratta spazialità in cui sono immerse, dal contesto naturale.

     Ne fanno fede i disegni: acute analisi della progettualità vitale delle forme di natura, simbiosi incandescente tra organicità e immaginario. E anche lo spazio, pur bruciando nella dimensione della luce la corporeità cromatica di cui è tessuto come un’esaltante memoria di luminescenza naturali. Queste memorie non rimandano mai direttamente alla natura: si fondono nell’astratto spettro d’una solarità che cresce via via con il prolungarsi dell’osservazione sino ad assumere la circolare, allucinata evidenza dello spettro. Non troverei paragone migliore, per indicare la qualità dei passaggi di colore-luce nell’immagine di Notari, quel convergere della scala cromatica nell’assolutezza sommatoria di un lampo allucinato, del prolungato vedere il disco solare: e una simile sensazione di progressiva espansione della luce delle fibre tessute del dipinto ricordo aver tratto da una sublime deposizione di Altdorfer.

    Il richiamo all’antico è una suggestione presente nei quadri di Notari. Ed in effetti l’opera recente sembra dichiarare nella sua ansia di racconto, un più risoluto scarto verso i modi di un lontano immaginare. C’è un che di declamatorio, di un’immagine corale: e vi compare, come prima non era dato, la figura umana. Certo Notari è un pittore che tende alla continuità della storia e la sua origine non è nel simbolismo alla Moreau, intriso di umori estetizzanti, e nemmeno nella favola surreale di Ernst, sebbene alcune consonanze con la Storia naturale possano indurre a pensarlo. Più facile intendere come per la via di una rivelazione “naturale”, passata per l’addentramento controllato di Klee e per i superstiti tremori del primo Rothko, egli potesse risalire al pathos controllato di una storia che va dal Correggio al Bernini. Scartando l’ipotesi di una riduzione ulteriore della pittura alla significazione astratta dei propri elementi, esaltare l’icona al contatto delle inusitate soluzioni del suo linguaggio di luce. Comprensibile anche quel precipitare della sua materia pittorica nei nodi complessi della composizione, l’ascendere stupefacente della forma in una circolarità patetica ove il dramma antico riecheggia come nostalgia di più commossa umanità. O la folgorazione del bianco nelle recenti “apparizioni” traiettorie di luce su di una via di Damasco che l’artista ha percorso con la dolorosa consapevolezza dell’avvenuta corrosione odierna d’ogni senso del sacro e dell’arcano.

 

Gianfranco Bruno, presentazione in Romano Notari. Mostra antologica 1961-1984, catalogo della mostra personale, Civica Galleria d’Arte Moderna, Gallarate, 29 settembre-27 ottobre 1985.

 

 

Era possibile, nel tempo in cui Notari, Repetto, Romiti, e Vangi venivano precisando la loro fisionomia di artisti, valutare l’esperienza dell’arte in rapporto alle idee centrali di una cultura tesa a ritrovare l’identità dell’uomo minacciata dai troppi assalti della storia recente. Se parlo di questi quattro artisti, non è per abbozzare una teoria critica destinata ad allinearsi con le tante esistenti: sostanzialmente essi non hanno in comune una tendenza, né alle spalle un’identica matrice culturale. E certo oggi, invalso anche per l’arte uno specialismo che ha, per comodità o abitudine, esentato la critica da quell’intendimento dei fini cui essa dovrebbe mirare, una scelta orientata verso esperienze che presentano continuità e spessore può meravigliare. Sostengo invece che il valore è proprio nella continuità e nella durata: la ricerca della novità fa parte del gioco sociale ed ha come obiettivo il consumo. E il relegare l’arte nel campo specialistico è rifugio ed incapacità a misurarsi con i problemi reali del nostro tempo.

    Nessuno può negare che spetti all’arte l’impegno più totale. Né è da credere che essa debba adeguarsi ai ritmi e ai modi produttivi della società nel tempo cui appartiene. In modo diverso questi quattro artisti manifestano una grande attualità, dal momento che oppongono l’inconsueto spessore della loro opera alla superficialità delle idee correnti. Tutti e quattro hanno fondato la loro esperienza artistica sulla convinzione che essa possa essere una risposta ai quesiti di fondo del loro esistere, non un modo per rapportarsi al sistema sociale della cultura. La loro opera è cresciuta nel tempo anziché esaurirsi negli slanci iniziali: essi hanno invece aperto la strada all’ampiezza di oggi. Non si incontra ai loro inizi l’ansia di stupire, ma un atteggiamento che chiamerei di “responsabilità della cultura”. E’ noto quali difficoltà abbia incontrato l’arte italiana a trovare nel dopoguerra la sua via. Per le generazioni più giovani, che si affacciavano negli anni Cinquanta, il compito era anche più arduo, a fronte delle posizioni affermate dai pochi autentici maestri italiani e al dilagare impetuoso delle esperienze maturate nel mondo. L’opera di questi artisti in misura maggiore o minore riflette alla sua origine il travaglio di quel tempo. Ma quel senso di responsabilità della cultura di cui parlavo prima, li ha tenuti discosti da una troppo facile osservanza di ciò che accadeva.

    Ne è prova il fatto che per loro si sia pronunciata la critica migliore, quella guidata da un egual senso di responsabilità della cultura: da Arcangeli, a Brandi, a De Micheli, a Ragghianti e Russoli. Occorrerebbe spiegare qui come la critica, quando è stata degna di tal nome, abbia saputo spogliarsi di ogni ambizione di protagonismo, e costruire la sua esistenza sullo spessore di reali esperienze artistiche. Notari, Repetto, Romiti e Vangi hanno filtrato la cultura di riferimento della propria immagine non assumendone rigidamente le soluzioni formali ma, più in profondità meditando la “posizione” nei confronti del fare arte che essa esprimeva. Ci sono alla base di queste esperienze almeno due delle posizioni di fondo dell’arte del nostro tempo: esse rappresentano punti assoluti di riferimento per un’espressione che di necessità, per essere attuale, si ponga senza illusioni di fronte all’esperienza. Uno è l’assunto informale, di totale azzeramento dei moduli storici formativi dell’immagine a confronto delle pulsioni primarie dell’esistente e della stessa autonoma energia vitale della materia. Nessuna accademia nell’esperire autentico che pochi hanno fatto dell’informale, anche se Wols o De Stäel, Gorky o Pollock, sembravano aver portato ad un limite invalicabile quella vicenda. Ne era rimasto come un assunto di fondo, un’idea di “posizione” appunto, che ammetteva, non il rivolgersi nei cascami di quella storia, ma il reperire in essa i segni minimi per la ricostituzione di un’identità fondata sulle facoltà di immaginare che consapevolezza e disincanto ancora consentivano.

    Un lavoro di ricostruzione lento, che poteva d’un lato accedere alla focalizzazione dei segni nel campo vasto dell’immaginario di Gorky o Rothko, o all’organico nascente delle materie indistinte dell’immaginazione surreale. Dall’altro era l’ipotesi di una struttura fondata su un gesto, o segno-pittura che annetteva come un senso di sbarramento, comunque di presenza, allo spazio immaginario. Così Repetto e Notari. Così Romiti. L’altro assunto è un tema, un’ipotesi di figura che appare emersa dal sussulto storico cui il ribaltamento dell’uomo da protagonista a naufrago aveva sottoposto la forma. C’erano state, nel nostro secolo – a saperle leggere in positivo nel loro drammatico attenersi alla presenza umana – le esperienze di Munch, il perentorio proporsi nel vuoto degli esiliati protagonisti dei dipinti di Beckmann. Così è singolare come Vangi, senza nulla concedere alla diretta memoria di quella storia, abbia ritrovato il seme gettato: e quel che sembrava chiuso nell’alveo di vicende individuali sia riapparso nella sua opera come bruciante segno del dramma del tempo in cui viviamo.

    Ora le opere dei quattro artisti, proprio perché ricche di uno spessore che deriva dal lungo affanno di discernere in un quadro che troppo offriva, e perché maturate nella fatica di modellare spogliando dalle suggestioni del superfluo, hanno a mio parere la grandezza solitaria e misteriosa delle cose compiute. Si pongono – semi gettati in un terreno che oggi sembra piuttosto percorso dalla febbre di esistere – come punti di riferimento per chi sa che l’arte è fenomeno di profondità e di riflessione. Se parlo oggi di questi artisti è perché i loro dipinti e le loro sculture stanno sulla parete o nello spazio con quella sovrana oggettività che è propria delle creazioni cresciute nel tempo, giunte attraverso le esperienze e la cultura su quella soglia dove è impossibile separarle dalla vita. Può essere che esse siano destinate per ora a vegliare silenziose sull’indifferenza dei più, attenti al clamore degli eventi facili. Ma è compito della critica indicarle, nella totale certezza di identificare in esse quel raro valore di dolorosa poesia che il tempo consente.

 

Gianfranco Bruno, Notari, Repetto, Romiti, Vangi, in Tre accadimenti dall’Arte Italiana Attuale. Bruno, Testori, Sgarbi, catalogo della mostra, Sale AAB, Brescia, 22 aprile-18 maggio 1989, Fabbri Editori, Milano 1989.

 

 

Una lunga ossessione, una interminabile sequenza, una unica camera assolata, un unico cuore pulsante, un unico sangue a irrorare il medesimo corno. La pittura di Notari non ha inizio, non ha termine: persegue una sua personalissima e originalissima temporalità che annulla ogni calendario, ogni orologio. Un bergnsonia luogo della “durata” che dilatando la coscienza profonda, lo sguardo nel vortice del pozzo senza fine ad attingere nell’acquitrinio degli archetipi. Senza poi citarli: occultandoli.Il luogo iconografico di Notari è stato stabilito secoli fa, secondi fa, non importa. Azzerando la visione storicista dell’accaduto rimane — afferma il pittore con le sue opere — la persistenza di una rivelata verità iconograficamente disposta anche a farsi scompaginare, a farsi attraversare dall’accavallamento di altri secchi che hanno attinto dal pozzo lungo dell’inconscio, dell’acquitrinio degli archetipi. Il pittore si lascia attraversare dalle voci lontane e vicine, si lascia ascoltare e come un S. Sebastiano si lascia trafiggere dall’immaginario che la Storia ha depositato dentro la sua — e nostra coscienza.

    In una unica grande pittura Notari ha trovato spazio per le varianti iconografiche e relativamente anche per le varianti stilistiche ora slabbrate, ora dilatate, ora racchiuse in strutture invisibilmente geometriche, ora girini ora donne e uomini e uccelli e nuvole e altro ancora tra Leda e Donna e Maria e Teosofia e Cattolicesimo Barocco e cosìvia a elencare quel che tutti hanno già trovato e che tutti ancora potranno trovare e vedere — ma come sono espresse, queste varianti iconografiche e stilistiche, così sono subito dall’artista come azzerate. Perchè iconografia e stile cedono subito il passo al dirompente timbro di voce e di canto del colore. Il colore in Notari azzera la iconografia e lo stile. Il colore è campo del colore. Campo magnetico, luogo della energia primaria e forza incessante che continuamente alimenta le solidificazioni del disegno reso in pitttira attraverso la naturalistica espressione delle forme che vogliono soltanto ritornare irriconoscibili forme (...).

    Notari racconta per non dire. Traduce la prosa in poesia: la sintassi è interrotta la grammatica scomposta e sovrapposta: “dice” di un volto ed ecco ne mette un braccio tra naso e orecchio “dice” di un monte ed ecco compare una spalla. Si direbbe un semplice incrocio tra iconografie, immagini trasparenti. Ma non è così: c’è dell’altro. E un fare per disfare. E’ un nascere per un morire perchè se si vuole rinascere bisogna porre fine alla vita, a “questa” vita. Questo è il nocciolo della pittura di Notari. Ma Notari è un pittore e non è filosofo ovvero può con le sue opere fare filosofia ma comunque non può che esprimersi che attraverso la lingua che si è inventato: con le forme, le figure, i colori, la superficie e le ingobbature della tela: con la voce, il timbro e il suono della forma, colore spazio campo della sua pittura. E così a nascere e a morire e a rinascere è la sua Pittura. Ecco che le figure si incrociano secondo un ritmo sinuoso, erotizzante. Ecco che il timbro del colore copre e avvolge come una placenta la forma e la figura. Ecco che il suono del timbro e del colore — il famoso giallo/arancio/bianco/rosso/viola ecc. ecc. — avvolge il silenzio di un Cantare di coro che assorda i rumori per poi ripiombare nel Silenzio che compete alla spazialità della placenta. A nascere e morire e rinascere, è la pittura. Che poi la pittura possa essere letta anche in iconologico interpretare, in parvenze alchemiche di trasformazione dei materiali iconografici e dei materiali fisicamente - empiricaniente - rappresentati (donne uomo uccelli uovo colore) tutto ciò appartiene alla superficie della interpretazione. (...)

 

Mariano Apa, Premio Città di Avezzano. XXV Edizione 1989-1990. Presenze tra Presupposti a Tendenze nell’Attualità, catalogo della mostra, Museo del Municipio, Pinacoteca Comunale, 22 dicembre 1989-24 gennaio 1990, Edizioni Quattro Venti, Urbino 1989.

 

 

A guardare nell’insieme tutta l’opera di Romano Notari, come se passasse davanti a noi in lenta sequenza o anche solo a vederne una scelta molto cospicua, fatta dall’autore stesso, come avviene in questa mostra, a far attenzione alle date, che, tra l’iniziale 1964 e la finale 1990, limitano 29 anni di pittura, si rimane colpiti da due fatti o aspetti, che sono opposti e sembrano contraddittori. Come se l’opera di Notari avesse due volti, due lati, che sono fusi l’uno nell’altro, ma indicano cose diverse, e formano però, cosìuniti, l’essenza stessa, il cuore vivo, di una vicenda artistica tra le più originali e profonde. Da una parte domina, o prevale, una grande uniformità; da Ora calda del 1964 a Spremisole del 1989, da Processo spaziale del 1966 a Parto floreale del 1990, sembra che la stessa ispirazione, la stessa matrice visionaria, la stessa poetica, gli stessi sentimenti, gli stessi significati, le stesse forme, abbiano continuato a riprodursi ininterrottamente, senza arresti, senza fratture, senza cambiamenti. Ciò è dovuto al fatto che le caratteristiche fondamentali di questa opera sono sempre rimaste intatte: anzitutto la pittura come pittura di luce; assorbimento ed emissione di luce simbolismo di luce; certezza, anzi fede, che la luce è vita del mondo e del sopramondo, della terra, del cielo, dell’universo, che è sempre luce fisica e spirituale, diffusa su tutto lo spazio e rappresa entro la nostra anima.

    Poi le tonalità del colore, e sarebbe meglio dire il croma del colore, la sostanza del colore, che stanno entro una gamma molto ristretta, tra il giallo, l’arancione, il rossiccio, il rosa e tutte le loro minime variazioni, minime assonanze, avendo sempre l’arancione al centro. Infine la non realtà dell’immagine; il pittore è al centro di un mondo dove abitano solo le visioni, e da cui sono escluse tutte le infinite parvenze, le infinite forme, gli infiniti aspetti del reale; per il pittore l’unica realtà è nelle immagini riprodotte dalla fantasia, secrete dallo spirito, poiché esse testimoniano e dicono l’unica verità, quella spirituale, che è ombra, fantasma, impronta, trasposizione simbolica e allegorica, della realtà esterna e della materia di cui essa è fatta.

    C’è ancora un quarto elemento che caratterizza tutta la pittura di Notari dall’inizio alla fine ma esso è così vago, così non quantificabile e non rappresentabile, così vago e vagante tra impulso sentimentale, desiderio, situazione psicologica e concretezza della pittura, che risulta difficile individuarlo, indicarne la presenza, i segni, le tracce, le bruciature, ma che pure si sente, per chi capisca a fondo la pittura di Notari, aleggiare ovunque in essa, permearla, costituirne l’invisibile medium; ed è l’amore; in ogni sua possibile accezione; una specie di bagno in cui la pittura è immersa. D’altra parte quest’opera mostra, quadro per quadro, sequenza per sequenza, tema per tema, periodo per periodo, una varietà grandissima: nascite, germinazioni, sviluppi; fantasmi che popolano le ore del pomeriggio; pienezza, incanto e allucinazione meridiana del paesaggio; trasmigrazioni nel cielo; occhi molteplici, di uccelli di divinità, di fantastiche presenze, occhi aperti o semichiusi; adorazioni, fioriture, schiudersi di grandi uova alla fecondità; dominio del sole; apparizione di esseri chiamati “Illuminanti”; capsule spaziali, traiettorie di satelliti, il fungo atomico trasformato in Fungo d’amore; monumenti all’unione di Leda e Cigno; figure umane, voli; falene misteriose, abbracci nel giardini proibiti, grandi foglie che vagano nell’anima con un carico di volti, di nudi, di gesti appassionati, anomale fioriture, costrizioni, legamenti, oggetti metallici, viti, tronchi, che anziché torture producono luce e sentimenti amorosi. L’enumerazione è lunga, probabilmente imprecisa, certo non così ricca come è ricca la pittura; poiché tutte queste “figure” si mescolano, si sviluppano, si moltiplicano, non cessano di rinnovarsi e di produrne nuove, per l’inesauribile fecondità del pittore, la cui fantasia febbrile, eccitata, vastissima, si mette in moto appena egli varca la soglia del suo grande studio. Niente lo arresta, né le vicende della vita, né gli alti e bassi della fortuna, nè l’agitazione orribile del mondo che si ferma con le sue onde lutulente a lambire la cinta del suo giardino, e che la attraversa solo filtrata, depurata, fattasi stimolo luminoso e puro.

    Notari continua a scrivere per immagini questo grande, ininterrotto poema della solitudine; come se fosse fuori dalla realtà, eppure immerso in una realtà diversa, essenziale, duratura, su cui soffia lo spirito e che la luce incendia. Ed avviene così che l’opera più monotona sia la più varia, che la più irreale. Sia la più vera, la più difficile sia la più avvolgente. Dall’Umbria di martiri, di sudori, di fatiche, di santità, dall’Umbria di bellezze verdi e di pietre rosa, dall’Umbria di storia e di natura, nasce un canto moderno, difficile, allusivo, infuocato e possente; un canto che si distende alto sopra la testa e sopra gli uomini, e indica il cammino della vera spiritualità, del vero sacrificio, della morale, della solitudine e dell’armonia.

 

Roberto Tassi, presentazione in Notari Romano, catalogo della mostra personale, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Palazzo dei Capitani del Popolo, Ascoli Piceno, 17 novembre-15 dicembre 1990. 

 

 

Non è nelle nostre corde chiudere i fenomeni dell’arte entro contenitori che preordinatamente dichiarino l’appartenenza dell’immagine ad un area o, quanto meno, perentoriamente affermano la sua ascendenza. Si ha l’impressione che sia, questo, un metodo che troppo rapidamente definisce l’assunto fenomenologico dell’opera — abbreviando, oltretutto, la sua decrittazione — prescindendo da ogni specifica analisi la quale crediamo, invece, assolutamente fondamentale, essendo a nostro avviso la sola che possa dichiarare la sfera dell’artista. E ciò anche in considerazione del fatto che l’esito creativo può, a tutta prima dare, per apparenti cadenze, indicazioni erronee o, al meglio, limitrofe alla sua particolare essenza. Occorre quindi, che si parta dal quadro per giungere all’Ismo. Poiché ancora, al metodo inverso poco interessa non solo la ragione profonda della costruzione del dipinto, ma con questa, anche quelle delle probabili significanti assonanze con le soluzioni di un trascorso che si danno per fondamento di memoria storica. Affermare dunque, che la ricerca di Romano Notari si sviluppa all’interno — e per accezioni — del codice onirico — cioè lungo la via della surrealtà è a suo modo limitante di fronte alla modalità della ricerca medesima. Se si rammenta poi uno dei principi del “Manifesto” del ’24 di Breton alludiamo — all’onnipotenza del sogno — sarà lecito avvicinarci all’opinione di Freud (nel suo colloquio con Dalì): “quel che mi interessa della sua pittura non è l’inconscio, ma il metodo della simulazione”. E ciò in quanto il pittore — ed è chiaro che si fa, qui, anche riferimento a Notari —  non cede all’automatismo, che è rivelazione degli stati profondi dell’essere, semplicemente riconoscendo — che è cosa diversa — “lo stato poetico surreale”. L’artista sa molto bene, infatti, che l’opera, per essere tale, deve osservare comunque un ordine, un equilibrio ed una cadenza di interne tensioni, e sa, altresì, che queste non possono essere che sunzioni, pur cromaticamente, essenzialmente formali.

    Sarà, quindi, di dentro la forma — la quale è, dunque, di per se indizio di precipua consapevolezza — ad orchestrarsi il verso della narrazione che, per le sue valenze, potrà anche allontanarsi da soluzioni stringenti. È chiaro che, a questo punto e nel “segno” del nostro pittore, si ribadisce la necessità d’una separazione concreta tra ciò che chiameremo assunto reale e quel che appare come mera locuzione formale; di qui, proprio, giungendo ad un freudiano “metodo della simulazione”. Che, peraltro, non deve fraintendersi — sarà bene chiarirlo — nella misura d’una figurazione a suo modo pretestuosa, ma propriamente in quella esatta del codice espressivo. Romano Notari, allora, è artista esprimentesi in tale maniera per le sue assolute necessità; perché, ancora, non può essere altrimenti che così. La surrealtà, dunque, è esattamente nello spirito profondo dell’icona, questa non di rado contemplando una dimensione che neppure sarà improprio definire mimetica alle cose.

    D’altronde — e riprendiamo quanto poc’anzi accennato — è indispensabile riconoscere come essenziale il concetto di euritmia che, del vissuto creativo, fa un’opera con i propri motivi di riconoscibilità. Parimenti l’artista sa altrettanto bene che pittura (soprattutto quella che tiene in conto la figuratività) vuol dire non solo e non tanto corrispondenza di significati, ma di evidenze morfologiche, e quindi, compositive. Sarà in quest’ottica che si giungerà persino a certa sublimazione della medesima vocazione espressamente onirica. Potremo così accennare ad una referenziale consanguineità del nostro (che non deve peraltro intendersi se non anche trasgressiva) con quei protagonisti della surrealtà che per assunto figurale (per incongruità di narrazione, ferma restando l’estraniata dimensione dello “stato poetico” ) in qualche misura deviano da ciò che chiamiamo semplicemente onirismo. Sarà, di qui, opportuno affermare la continuità — nell’ovvia evoluzione semantica -— dell’opera di Notari. Affermare, inoltre, la presenza di alcune costanti che sin dagli anni Sessanta (ci riferiamo, ad esempio, a Nella terra del sole) giungono ad offrirsi, pur negli esiti recentissimi Cigno del sogno scrigno. Costante linea già peraltro indicata sia da Roberto Tassi che da Luigi Carluccio — che si riassume nell’evidenza della luce. Quella del pittore è, non di rado, luce totale. Una luce tuttavia, che pur concependosi allo Zenith dell’intensità, non impedisce — sfrangiandola — il riconoscimento dell’immagine, così sottraendo la possibilità stessa di identificazione con il vero. La luce meglio assolvendo al suo ruolo di apparizione e, al tempo stesso, spingendo all’analisi degli oggetti. Totalmente immersi, questi dunque, in un’atmosfera senza palpiti che arriva a rendere inconoscibile la misura del tempo.  Anche in quell’ottica Romano Notari fa prossima la sua poetica a quella dei riconosciuti e storici maestri del Surrealismo. E se De Chirico non avesse, da quelli, preso le distanze, anche prossima alla sua visione. L’ora di Notari, dunque, è indecifrabile, come quella metafisica. Il pittore scandisce — informandoli — i suoi ermetici luoghi del “sogno allo stato di veglia”. Li esaspera a volte, e ciò nonostante alcune evanescenze che sfumano i confini e i lineamenti interni dell’immagine. Traendo, non raramente, persino dal mito: poiché questo è il limite più forte tra la realtà e il sogno. E dal momento che, come già affermato, si è sostanzialmente contrari a discorsi che non s’approssimino all’analisi, si vorrà accennare ad un’opera che reputiamo singolarmente significativa e, per la quale dare compiuta sostanza alla poetica stessa dell’artista: Monumento a Ledacigno Op. I del 1976.

    L’immagine che ci appare d’immediato affollata per la reiterazione di elementi simbolici e mostruosi. Simbolo, metafora ed allegoria sono tra le modalità del pittore. Subito rammentando — per non essere malintesi — che diciamo mostruoso nell’accezione del suo etimo: prodigio, portento, fenomeno. Il mostruoso di Notari, allora, propriamente va di pari passo con l’affabulazione mitologica. Quel che in ogni caso ci preme indicare, al di là d’ogni pur possibile teoria, sarà la struttura del dipinto. L’artista ci pone al centro di una sorta di ambiguo interno-esterno fortemente cadenzato per suggerimenti architettonici. Ma, procedendo nell’analisi, quel luogo sembrerebbe risolversi nella sola cadenza di un interno con pareti e soffitto illusoriamente “sfondati”, secondo l’uso che fu del Barocco.

   Ambiente che, per il suo specifico ancora, non di meno appare evocare il significato della “stanza segreta” (ci si rammenti dell’“Asino d’oro” di Apulcio), ove gli iniziati venivano aspersi d’acqua lustrale o del sangue d’una vittima sacrificata. Stanza, quella di Notari, in cui l’amore — che è psicologicamente anch’esso rito sacrificale — tra Leda ed il Cigno-Giove si consuma in una sorta di continue rifrazioni moltiplicanti, da un luogo all’altro, il senso della figurazione. Ma, ancora per quel che riguarda l’assetto costruttivo e, traslativamente, quello di una memoria storica emergente che a sua volta informa l’immaginario dell’artista, vorremmo dire d’una scansione che sembrerebbe rammentare i TOPOI di Delvaux e, per tramite di questi, le medesime situazioni dechirichiane. Fughe prospettiche ed oblique ritmano infatti (come i portici del Metafisico) i registi laterali, mentre una soluzione sul fondo che, al di là dell’evanescenza, è a suo modo monumentale, potrebbe richiamare la statua di Arianna nelle “piazze d’Italia”. Si comprenderà. forse allora in quest’ottica, quanto siamo andati sin qui dicendo. Sogno, certo. Mito, certo. Memoria, Certo. Ma tutto per coordinate che tendono a significare soggettivamente i possibili riferimenti.

 

Domenico Guzzi, presentazione in Romano Notari. Via sole. Dipinti dal 1975 -1991, catalogo della mostra personale, Palazzo della Provincia, Atrio Colonnato, Bari, 7-22 dicembre 1991.

 

 

Kafka non c’entra. O forse sì. Come dire che una ciliegia tira l’altra e un processo un altro processo. Non c’è soluzione di continuità, tanto che ne scaturisce addirittura un groviglio, inestricabile nei suoi rimandi. Credi di uscirne e sei al punto di partenza, o da qualche altra parte, ma fa lo stesso. Il dedalo ammicca con i suoi ingannevoli percorsi, ed è facile imboccarlo. Pure il gioco delle parole, sino ai nonsense, è altrettanto invitante; quello dei concetti, invece, è assai meno semplice. Con un balzo, cioè, si entra, un balzo da leprotto-con-panciotto (e perchè non rileggere Alice?) mentre la strada a ritroso, ha un ritmo sinuoso, leprotto-panciotto, ritroso-sinuoso: anche le assonanze hanno diritto di cittadinanza, creano sfumature e contrasti; come i colori, graduati ed improvvisi, lenti e repentini. Intrappolano. Attenti, dunque, davanti ai gialli d’oro e di fuoco di questo autentico poema che da decenni Romano Notari propone, e che vanta adesso un nuovo ciclo di opere (1991-1993) dal titolo Le stanze dei processi aperti. Che li abbiate davanti agli occhi sulle pareti, oppure qui di fianco, nella pagina che segue o che precede la semina nera delle lettere di questo scritto, attenti!, la trappola, la sorpresa, è pronta a scattare e la caduta sarà libera. Si precipiterà come Alice, ma non in uno strano pozzo tappezzato da carte geografiche e da chicchere su scaffali; si precipiterà nel gorgo di una luce abbacinante, di un silenzio di mistero, di memorie e di affioramenti che si distendono per restare poi immobili in attesa di essere decifrati. E’ un silenzio che trasporta lontano. I pensieri, il fantastico rincorrersi di frasi sul punto di essere pronunciate e pertanto ancora chiuse nel loro scrigno, sepolte nell’inconscio, non balzano subito in primo piano; al contrario s’insinuano, s’intersecano con le immagini cui danno vita, si sovrappongono e creano un insieme di sogno, una metamorfosi inesauribile che si infiamma e arde di luce. Dalla densità di un arancione risonante ad un giallo che predomina nelle sue molteplici gamme e che fa come da controcanto nel cuore di un ribollente cratere da altoforno spalancato, le sequenze si succedono le une altre altre con il loro flusso germinante.

    La visione prende corpo, si veste di immagini, diventa dramma che, se vogliamo risalire all’origine della parola, si tramuta palesando ancor di più il succedersi degli eventi. I corpi o le membra con le loro figure bloccate nella concitazione del possesso si sommano e si confondono le une nelle altre sino a perdere — o ad accrescere? — la loro originaria identità. È il flusso della vita con i suoi conflitti e le sue contaminazioni, e pertanto nei suoi splendori acri e tremendi, che si sustanzia, che si sublima e si propone per mezzo di simbiotiche rifrazioni e di continui rispecchiamenti. Figure femminili e maschili si intrecciano, si trasformano e si rinnovano, tese come sono all’estremo di un orgasmo che non appartiene più soltanto alla loro finitezza. Perfino lo spazio nel quale si pongono e vivono è riplasmato; l’azione, l’atto, lo inonda e lo cattura. Leda diventa il Cigno e viceversa. Il luogo del loro amore, della loro lotta e del loro possesso — come quello di altri — è a sua volta posseduto e quindi rigenerato. La carne e la sua immagine sono state mutate in visione, dalla quale il mito diventa nella sua irrealtà presenza quotidiana. Tutto si dispiega e si coagula. La metamorfosi è dunque un punto di arrivo o di partenza, oppure, più semplicemente, è qualcosa in sè, un modo di essere o, per dirla con Heidegger, un dasein? La risposta è certamente quest’ultima.

    Altrimenti il farsi materia nel colore e nella luce, il salire alla superficie di recondite e di vissute pulsioni che dall’inconscio e dalla notte dei tempi, quali squarci e reperti di una memoria storica che affiora e prende forma, altro non sarebbero che una petizione di principio, mentre le stanze che ospitano il divenire di questi processi aperti sarebbero soltanto dei luoghi e non, come al contrario sono, delle situazioni. Le varie scansioni prospettiche tanto simili a rimandi ed a rifrazioni di specchi, moltiplicano la loro stessa realtà fisico-oggettuale ed al contempo poetica — si tenga presente, oltre al resto, che stanza può voler dire anche ritornello, composizione poetica — sono, nell’essenza più intima, dei dati mentali; sono la proiezione fantastica di ciò che siamo.

    Ecco allora il susseguirsi di apparizioni talora scultoree in arcani giardini, oppure nel silenzio di appartati cubicoli carichi di luce e di sensi, e quindi ancora il rinnovarsi di ulteriori canti d’amore e all’amore, che, essi pure, irradiano una solare sensualità; ecco allora, in un incalzante succedersi, queste vicende dal misterioso, affascinante, e multiforme variare di gialli, le quali trovano la loro naturale epifania proprio tramite i più segreti, e contemporaneamente manifesti, domini della visionarietà. Si tratta di una matrice all’interno della quale il pittore umbro ha saputo immettere, e sempre con originale e personalissima desinenza, quelle lezioni del passato che più ha sentito congeniali, dal simbolismo, alle raffinate squisitezze dell’Art Nouveau, dalle raggelate visioni di cristallo di Friederich agli spaesamenti surreali, dalle vampe spesse di tramonti e di albe di Turner, ai michelangioleschi turgori di corpi sospesi nello spazio, sino all’aggrovigliato ed accalcato sovrapporsi di dannati come da secoli il Duomo di Orvieto ci prospetta per mano di Luca Signorelli.

    Sono soltanto delle indicazioni di massima, delle suggestioni che vanno pertanto accettate come tali, ma che pur tuttavia dobbiamo tenere presente, se vogliamo ulteriormente sondare la polivalente ricchezza e l’ampio retroterra che fanno da sfondo all’opera di Romano Notari, un pittore che, coerente, ha saputo, e sa, dipinto dopo dipinto, disegno dopo disegno, svelarci, in un’esplosione incantata di luci e di colori, di forme e di accadimenti, la realtà ed il mistero della vita. Da qui, e con tutte le sue tensioni anche di carattere esistenziale, una discesa agli Inferi, e, di contro, un mistico, abbagliante risalire.

 

Luigi Lambertini, Le stanze dei processi aperti, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Bambaia, Busto Arsizio, 26 febbraio-2 aprile 1994.

 

 

Pittura visionaria. Immagini femminili e uccelli. Dal ’52. Proprio così. I primi lavori di Romano Notari (Foligno, 1933) risalgono a quel tempo. E da allora, è stato questo il tema dominante della sua tavolozza. Ricordate i suoi voli fantastici alla Biennale di Venezia del ’66 e del ’72? Adesso l’artista umbro ripropone le suggestioni dell’ultimo triennio. Titolo? Le stanze dei processi aperti. “Kafka non c’entra. O forse sì”, nota Luigi Lambertini in catalogo. Il Kafka del Processo, naturalmente. Con le sue ossessioni aleggianti, il senso claustrofobico degli ambienti, dove la persecuzione dell’immaginario risuona ancora più forte nella mente. Notari ha scritto un altro capitolo del suo racconto per immagini. La memoria affiora, precipita. Afferra scaffali e carte geografiche, tazze e bicchieri. Giallo e arancione. Corpi sezionati, colti nell’attimo in cui si torcono, in cui s’appressano ad altre figure nelle quali sembrano specchiarsi, sino a confondersi. Dove? In stanze, appunto. Stanze come scenari d’un teatro dove i protagonisti si librano nell’aria, si assommano alle pareti, al tetto; in cui i loro ruoli si confondono. S’invertono persino. “Leda diventa Cigno e viceversa — scrive Lambertini. Il luogo del loro amore, della loro lotta e del loro possesso (come quello d’altri) è a sua volta posseduto e, quindi, rigenerato. La carne e la sua immagine sono state mutate in visioni, dalle quali il mito diventa nella sua irrealtà presenza quotidiana”. D’un tratto, le apparizioni. Pare di trovarsi dinanzi a visioni manieristiche. È la struttura dei corpi a suggerire l’accostamento. Il Michelangelo della Cappella Sistina e quello dei Prigioni. Trasposto in un’altra quinta. Quella del Teatro Notari. Un Notari autore anche del dialogo, delle scena, dei costumi e della musica che non si sente. Ma che sicuramente c’è.

 

Sebastiano Grasso, Visionari i lavori dell’ultimo triennio di Notari. Nelle stanze di Leda, in “Il Corriere della Sera”, Milano, 27 febbraio 1994.

 

 

Nel riepilogare la copiosa letteratura critica sull’opera pittorica di Romano Notari si distinguono varie impostazioni dell’opinione relativa alla sua poetica e indubbiamente, conoscendo le propensioni di tutt’altro gusto che determinarono le idee di Marco Valsecchi, può indubbiamente suscitare stupore la sua attenzione al lavoro di questo artista. La sua testimonianza risale al 1969. Dopo tanto tempo, però, mi accorgo come fosse acuta la sua osservazione rispetto a quella di altri critici apparentemente più vicini al pittore per gusto e cultura. Egli fondamentalmente afferma: “La pittura di Romano Notari si pone preferibilmente tra simboli che non tra le metamorfosi”. E sostiene, con un’osservazione apparentemente elementare, ma capitale, e la cui straordinaria evidenza fa sì che ai più sembri inutile menzionarla: “...Il colore stesso... e già un simbolo”.

    Quella di Notari è ormai una storia lunga, che procede trasversalmente rispetto ai percorsi degli artisti della sua generazione variamente attratti, i più, dal neoinformale o dal neo-pop. Né è stata accolta almeno dai neo-surrealisti dove avrebbe potuto agevolmente trovare un alveo, ma giusta esclusione poiché in Notari manca il ludico, manca pure l’automatico, vi è per di più un’idea del sacro e del mitico, e altri aspetti che lo allontanano dal surreale accostandolo, appunto, soprattutto al simbolico. Dunque lo si deve considerare un fantastico, un visionario, non un surreale. Ma dall’inizio degli anni Sessanta, allorché hanno cominciato a determinarsi chiaramente i motivi della sua ricerca, nessuna osservazione tra le molte — alcune autorevolissime e brillanti — ai suoi modi espressivi tanto particolari, mi è sembrata così lucida, ora persino preveggente.

    Alcuni commentatori, i più intelligenti, quali Elda Fezzi, Francesco Vincitorio ed Enrico Crispolti, e altri, riconoscono l’esattezza dell’indagine arcangeliana. In seguito la ricerca del l’artista è stata talmente coerente rispetto alla propria tipologia da non potersi apparentemente rilevare alcun sostanziale cambiamento nel suo percorso se non per quanto riguarda la maturazione costante della forma, la capacità pittorica e l’enumerazione di cicli tematici che si distinguono non solo iconograficamente ma anche per il diminuire o l’accrescersi della tonalità solare, le accensioni più o meno violente, le soluzioni luministiche a volte persino abbacinanti. Al contrario le sue ricerche sono assai mutevoli e differenziate. Notari ha saputo rompere la specularità e la costruzione bipartita tanto tipici nella sua iconografia proprio nel momento in cui il suo immaginativo chiariva apertamente il pensiero sul valore della comunicazione dell’umano col cosmico (col divino?).

    E il suo specializzato cromatismo, in quel momento, non si è più proposto come disegno, ovvero segnocolore, su piano verticale, iscrizione dell’immagine su fondale, ma ha proposto bagliori insondabili, profondi riflessi stellari, abissi di luce. Insomma, si può affermare che la conquista di un nuovo spazio abbia dato alle sue immagini anche una diversa dimensione poetica. Inoltre questo fatto ha evidenziato come l’idea — peraltro superficiale — che Notari si esprima con criteri di forma e costruzione fissi, determinata anche dalla sua fedeltà alla gamma cromatica del rossi, e che mi pare assolutamente irrinunciabile per i significati del suo immaginario, è ingiustificata. Infatti al buon osservatore non può sfuggire che l’applicazione di quei colori ha subito varianti e intensità differenti numerosissime nel tempo, si è piegata e adattata alle tematiche che l’artista andava dipanando, e il ductus stesso ha ogni volta ridefinito i suoi modi.

    Personalmente trovo dunque che Notari sia pittore mutevole, tra i pochi della sua generazione capaci di rinnovarsi confermandosi con idee e modi prosecutivi. Dal ’90 Romano Notari ha mostrato sempre più accentuata la propensione a ripensare il Barocco seguendo un’inclinazione naturale e di cultura già enunciata. In particolare nel ciclo denominato complessivamente Le stanze del processi aperti corpi metamorfici lievitano in spazi riquadrati da rigide prospettive esigendo una visione dal basso e per i quali la più logica destinazione è di decorare orizzontalmente un soffitto, e ricordano i trionfi decorativi di Luca Giordano ma dove l’esultanza gloriosa è sostituita da un intenso sapore erotico.

    Più evidente indizio che dirige simile interpretazione lo offre l’autore medesimo: al proposito vale la pena di esortare a guardarsi dallo snobismo, tanto diffuso tra certi critici, di non considerare i titoli che gli artisti appongono alle loro figurazioni. La levità fluttuante delle figure che si contorcono nell’imminenza d’incruente metamorfosi assumendo sproporzioni e stiramenti anamorfici è impedita nell’anelito ascensionale dalle quadrature architettoniche, metafora della fantasia trattenuta dal calcolo formale o del sentimento frenato dalla ragione.

    Più recentemente Notari ha dipinto immagini la cui destinazione al centro di uno spazio sovrastante è cosìchiaramente determinata tanto da escluderne ogni altro possibile utilizzo, implicando la cupola o le vele come forme plastiche ospitanti. Si tratta di lavori in cui l’allusività e la finzione spaziale raggiungono la maggiore intensità. Sono superfici circolari, ovoidali, e triangolari che accolgono un immaginario in cui il barocchismo dell’assunto si é apertamente affermato in tutta chiarezza e le figure hanno subito ormai la trasformazione finale, divenute uccelli di luce, laica parafrasi dei trionfi angelici dei cori di troni e cherubini, circondanti la lanterna delle chiese settecentesche.

    Queste figure si muovono in una luce antica innocentemente accesa, panica ed erotica che evoca il sentimento mediterraneo della fertile luce solare, origine di ogni nascita. L’idea di Notari ha però anche un’identità romantica poiché eros è anche distorsione del desiderio, peso della carne, attesa della morte poiché “solo ciò che muore può rinascere”, è malinconia del limite della materia. Del resto il cerchio, il triangolo, cui l’artista fa sovente ricorso seppure preterintenzionale sono simboli del divino; come il sole-uovo è simbolo del principio, percezione interiore, misura essenziale della consapevolezza, alchemico cenotaffio del sapere. Le luci che si espandono con diffusione circolare, o con rifrazioni raggianti oppure vorticanti, attraggono e risucchiano esseri che se ne intridono, assorbiti dalla stessa luminosità traendone vita e ne sono contemporaneamente respinti; rappresentazione efficace di come si diventa ciò che siamo e torniamo così ciò che siamo stati secondo la legge naturale.

    Muove dunque l’immaginario di Notari un’idea cosmica, una consapevole nostalgia del futuro. E così il colore cambia segno e destinazione. E la sua luce è stata, nel tempo, luce dell’inferno o del paradiso, luce naturale o spirituale. Ma, seguendo puntualmente l’evoluzione di questo artista dagli esordi, cercando la ragione del fascino che i suoi di pinti hanno sempre esercitato su di me, spesso mi sono rammentato una riflessione di John Ruskin sulla quale credo valga la pena soffermarsi ancora poiché molto gli si attaglia: “In generale i greci avevano più piacere a contemplare la porpora che qualsiasi altro colore. Tutte le persone sane, il cui occhio è sensibile al colore e che non partono da preconcetti, condividono questo sentimento, e lo condivideranno sempre... Ma questa preferenza istintiva per la porpora nello spirito greco evocava tanto poco la gioia o il sentimento di pietà che può ispirare questo colore, che Omero lo associa costantemente all’idea di morte: la purpurea morte”.

    Allora la solarità e il ricorso frequente di Notari ai temi della mitologia greca sembrane potersi interpretare diversamente dal tripudio gioioso, dal senso panico e animistico, che molti suoi critici gli attribuiscono. La mia sensibilità alle sue immagini è provocata immancabilmente da un languore, più spesso una malinconia, e un senso di perdita, d’inadeguatezza che interpreto come l’effetto dell’impossibilità per il pensiero comune di penetrare il mistero cosmico e quello della vita o della morte, come se la luminosità notariana non fosse che, per virtù contrastante, l’esorcismo contro il sentimento del buio profondo, nero incommensurabile dell’eternità. Quella sua luce, purpurea e dorata, a volte immateriale o per meglio dire non più fisica, nella quale l’immagine perde i suoi connotati, a ben vedere, non è luce piena del giorno; invece è sempre luce del crepuscolo, e d’addio, trafitta da bianche profondità insondabili di vuoto al cui centro potrebbe aprirsi uno spiraglio verso l’eterno senza fine.

 

Renzo Margonari, Addenda alla critica sulla pittura di Romano Notari, presentazione in Romano Notari. Dipinti dal 1993 al 1997, catalogo della mostra personale, Sale Espositive del Monastero di Colonna Lido, Trani, 22 marzo-27 aprile 1997.

 

 

Un viaggio iniziatico verso la luce: sette secoli fa Dante Alighieri in compagnia di Beatrice, oggi, Romano Notari, in compagnia di Piero della Francesca. Può sembrare esagerato e grottesco, un impeto incontrollato di chi evidentemente è “fuori dal mondo”. Credo che Notari non si lamenterebbe di essere considerato, artisticamente, uno “fuori dal mondo”. Anche Dante, il Dante della Divina Commedia era un uomo volutamente fuori dal suo tempo, fuori dalla realtà ordinaria; ma solo così il divino poeta riuscì a individuare la giusta dimensione spirituale per interrogarsi su se stesso, sul senso della vita e della storia. È indubbio che Notari vada considerato “fuori dal tempo”.

    A Notari interessa l’arte dello straordinario non conosce l’Avanguardia, ciò che è stata e ciò che ne è rimasto, non vuoI conoscere la Pop Art, la Op Art, il Concettualismo, il Minimalismo, ma non c’è da sorprendersi se la pittura di Notari ripropone ideali espressivi legati al Manierismo, al Barocco, ma anche al Simbolismo, come se nel frattempo niente fosse cambiato dai tempi in cui Manierismo, Barocco e Simbolismo avevano più stringenti ragioni di essere. I riferimenti al passato di Notari riguardano non solo stili e contenuti dei dipinti, ma anche la loro struttura, le loro organizzazioni a polittico come sarebbero piaciute a Grünewald, e le cornici antiche come sarebbero piaciute a Gabriel Rossetti. È questa la dimensione assoluta, l’eterno presente in cui l’artista Notari sente di vivere, quella che gli concede di esprimersi così come si esprime, mostrando di avere una conoscenza non lontana da quella che Dante aveva con il regno dell’oltretomba. Sono però innegabili le somiglianze della pittura di Notari con manifestazioni artistiche aggiornate come, per esempio, l’Anacronismo.

    L’Anacronismo è nato in lotta con il presente, con un certo presente artistico che intendeva negare qualsiasi diritto d’esistenza alla figurazione di forte ispirazione storica. L’Anacronismo ha però inteso porsi a sua volta come il presente, come fenomeno espressivo in linea con la sensibilità del suo tempo; come una nuova avanguardia. Notari, al contrario, è indifferente al presente artistico, alla dialettica del moderno, ai giochi di mercato, alle continue alternanze fra correnti e movimenti vari in un’insensata gara per la quale ognuno cerca di essere “più nuovo” dell’altro.

    Perché mai bisogna essere “più nuovi” quando tutto il meglio è stato già fatto? Perché cambiare quando niente potrebbe essere migliorato? Facile rinnegare, distruggere, ricominciare da capo; molto più difficile tenere il passo con il meglio, con il “non migliorabile”, provando quella frustrazione che Vasari e i suoi contemporanei provavano davanti al “non migliorabile” di Michelangelo. Quando l’arte del passato è stata in grado di affrontare qualsiasi argomento estetico, teologico, esistenziale, all’artista non rimane che il “manierismo” (intendo come atteggiamento prima ancora che un preciso stile), la conformazione a un linguaggio che può ancora dire altro, con nuove valenze individuali, con diverse sfumature concettuali, ma che non può essere ulteriormente perfezionato.

    Cosa significa essere “fuori dal mondo”? Significa veder quello che in condizioni di normalità gli occhi non riescono a vedere, cogliere quello che le menti non riescono a cogliere. Significa essere visionario Tutta la Divina Commedia è una visione, o meglio la finzione di una visione (la struttura ideologica, narrativa e lirica del poema è stata naturalmente elaborata per lungo tempo dal suo autore). Dante ricorre alla visione perché nella mentalità dei cristiani medioevali rimaneva ancora il più apprezzato strumento di verità. Anche Notari è un visionario. Questo dicono le sue opere, in modo talmente evidente da non poter dar luogo ad alcun equivoco. 

    Come un profeta, Notari cerca in pittura apparizioni rivelatrici, excessus mentis travolgenti, verità inconfutabili che si offrano anche all’intuizione di noi mortali. Notari cerca la luce, l’origine del tutto, l’essenza assoluta, il prima e il poi, la materia che si fa spirito. Non sono, quelle di Notari, visioni necessariamente semplici e rasserenanti, di quelle che provocano estasi serene e subito appaganti. Talvolta, anzi, la conquista della verità diventa per Notari una lotta contrastata che richiede sforzi estremi, soprannaturali. Non un’entità unica e dominante, nelle sue opere, ma colori di fuoco, di ghiaccio, squarci accecanti di luce che si poggiano su convulsi intrecci di corpi, costruendo in tal modo simbologie che sembrano rimandare sempre a significati nuovi oltre a quelli più immediati. Spettacoli grandiosi, apocalittici, energie in fermento continuo come nei quadri di Tintoretto o di Magnasco. Ci si accorge, allora, che per capire la corretta matrice formale di Notari bisogna ancora ricorrere a quelli che potevano sembrare semplici pretesti nel nostro discorso, Dante e Michelangelo.

    C’è un artista che ha guardato egualmente a Dante e a Michelangelo come a due riferimenti supremi del proprio visionarismo, del proprio titanismo, del proprio simbolismo ante litteram. È un artista che da molti viene considerato il primo artista moderno, almeno nel senso più generale del termine: William Blake. A Blake, al suo “dantismo”, al suo “michelangiolismo”, al suo essere volutamente fuori dal mondo e dal tempo, al suo dipingere quello che non si può vedere, bisognerebbe risalire per comprendere i termini reali in cui Notari si pone nei confronti della modernità. Blake primo dei moderni perché ultimo degli antichi, summa di tutto un modo di concepire l’arte oltre la quale si può solo raccogliere il testimone, come hanno fatto successivamente Moreau, il Dalì dei temi mistici, Clerici, tutti artisti ai quali Notari deve aver guardato. La modernità è dunque qualcosa che non è legata all’attualità del momento, ma che ha già avuto una sua precisa e soddisfacente soluzione storica. Michelangelo, Tintoretto, Magnasto, Blake, Moreau, Dalì, Clerici, sono comunque artisti piuttosto lontani dalla “guida” che Notari ha scelto nel suo viaggio verso la luce: Piero della Francesca.

    Tanto olimpico, chiaro, regolare e statico è Piero, dall’alto di una scienza prospettica che gli dà l’illusione di conoscere il segreto del mondo, tanto inquieti e “irregolari” (nel senso di essere fuori della regola) sono Michelangelo, Tintoretto, Blake, Dalì. Notari sceglie dunque di confrontarsi con un maestro al quale lo legano inizialmente poche analogie; un maestro con il quale instaura un rapporto di duro “faccia a faccia”, talvolta di scontro aperto. Notari non si cala nella serenità e nella perfezione umanistica del mondo pierfrancescano, preferisce entrarvi con forza, cercare spunti formali e ideali, manipolarli, rielaborarli, reinterpretarli, “notarizzarli”. Ne esce fuori un Piero quasi irriconoscibile, visionario, ricco di inedite espressività cromatiche, che evocano capolavori come la “Madonna del Parto”, il “Poiittico di Sansepolcro”, la “Pala di Brera”. Si ha l’impressione, insomma, che Piero si riveli per Notari un compagno di viaggio importante, capace di stimolare nuove riflessioni e invenzioni iconografiche, ma non indispensabile. In fondo, il suo viaggio verso la luce, Notari lo vuole concludere da solo, “servendosi” di Piero come Dante aveva fatto con Beatrice.

 

Vittorio Sgarbi, Notari/Personaggi, presentazione in Romano Notari. Con Piero verso la Luce, catalogo della mostra personale, Casa di Piero della Francesca, Museo Civico, Auditorium di Santa Chiara, Sansepolcro, 16 settembre-28 ottobre 2000, Umberto Allemandi & C., Torino 2000.

 

 

Sono due le possibilità: o Romano Notari è un mostro alieno, originario di un pianeta posto ai margini della nostra galassia, oppure è un tale poeta da non meritare di vivere in un mondo irriconoscente come questo. Io propenderei per la seconda ipotesi (ma non è detto sia la più corretta). Del resto, se così non fosse, parrebbe nulla affatto strano immaginarlo su Marte — o magari su Plutone — e lì vivere esistenze a noi incomprensibili. Deve trattarsi di un universo dai colori stralunati e irreali, almeno dal punto di vista terrestre. Un paese dove comandano insoliti esseri alati, uccelli dediti alla consacrazione del Sole e dell’Armonia, tanto sublimi da non sfiorare neppure le nostre miserie. A Notari devono sembrare possenti, magici, divini. Per noi, invece, possono semplicemente apparire uccelli sospesi tra natura e irrealtà. Però poco importa: siamo una società materialista, scarsamente dedita allo spirito. Direi, di converso, che il pittore umbro sale al cielo come Icaro, e lì rimane sollevato sopra le passioni dell’uomo, ci osserva dall’alto e ci vede piccini, nonostante i problemi di tutti i giorni ci sembrino al contrario immensi. Ma se esiste qualcosa di grandioso, è il suo lirismo, il cogliere atmosfere fuori dal tempo e dallo spazio, nel luogo in cui i sogni toccano la realtà e quest’ultima appare alla percezione dei sensi nel suo vero stato. E’ da chiedersi da dove vengono queste suggestioni qualora Notari fosse davvero umano e nessuna teoria extraterrestre riuscisse a confortare alcuna supposizione stravagante. Tutto sgorga dalla solitudine in cui il pittore si immerge nell’attimo della creazione. Un solipsismo invidiabile e immaginifico che salva l’artista dalla follia della materialità, dalla pazzia cui l’uomo mondializzato non rinuncia. Notari ha creato un’esistenza migliore e felice nella quale il vuoto della mediocrità ha corroso gli animi e annientato la fantasia utile a sopravvivere ogni giorno. Sorprendente è fermarsi a fissare uno dei suoi lavori e poi chiudere gli occhi e, lasciandosi cullare dalla musicalità delle immagini, aspettare di vivere nelle venme quegli stessi ambienti, quelle medesime esaltanti avventure. la confessione cui si è prestato l’autore diviene allora confessione anche di chi guarda i suoi quadri, mentre l’esperienza che ne deriva risulta essere l’avventura comune di due spiriti assirti in una comunità animica che va oltre i sensi e le immagini. la sua ossessionante visionarietà non è umana, non può esserlo, perché non appartiene ai canoni della nostra conoscenza. E’ piuttosto un sincero ritirarsi in sè stessi, per scandagliare l’intimità segreta prima di apparire all’esteriorità. Una scelta che è silenzio, passione, poesia. Attributi degli eroi: siano essi umani, alieni, o soltanto artisti? Soltanto.

 

Flavio Arensi, Notari novello Icaro extraterrestre, in “Sole delle Alpi”, 18 novembre 2000.

 

 

L’amico Farroni dice che sono un conservatore di memorie, e forse devo ammettere effettivamente di esserlo. È un vizio o una virtù, secondo da che parte si guardi, conservare le memorie, e la questione può avere una particolare rilevanza proprio perché oggi si ha tendenza a perdere la memoria. Non è tanto che sia eccezionale dunque la mia posizione; piuttosto è un po’ rara, perché effettivamente il costume di gran parte della società nella quale viviamo è quello di una memoria a tempi brevi. E ciò se in molti campi può dare forse maggiore slancio verso il futuro, nell’ambito dell’arte, dove il futuro ha tanto più slancio quanto più è consapevole di quello che è accaduto, risulta invece un modo per tarparsi il futuro, o per darselo di corta gittata. Credo quindi che il discorso della memoria sia importante non per vincolare il futuro ma per pensare un futuro consapevole. I futuristi erano ben consapevoli di costituire essi stessi un futuro possibile, ma, mentre negavano qualsiasi riferimento con il passato e tagliavano dunque i ponti dietro di loro, in realtà conservavano dei legami sottili con il passato che li riguardava, finendo in qualche modo dunque anche per riconoscerlo.

    Dico questo perché nel bel catalogo della mostra di Notari allestita alcuni mesi fa nella Mole Vanvitelliana, nell’ampia antologia critica, c’è un pezzo che ho scritto sul suo lavoro nel 1967, cioè un bel po’ di anni fa. Notari ha la stessa mia età, quindi nel ’67 eravamo ambedue piuttosto giovani. Ecco cosa voglio dire: Notari ha una storia lunga, e se Farroni cercava poco fa di battermi sul fatto dell’intensità dell’amicizia con Notari, io certamente lo batto sulla distanza di tale amicizia. Ho riletto quel testo: ebbene vi sottolineavo, già dunque più di una trentina di anni fa (ed è quello che in fondo ribadisce ora Farroni) che la posizione di Notari appariva chiaramente quella di un indipendente.

    Notari infatti ha seguito un del tutto proprio filone di ricerca, e sono tentato di dire che abbia seguito un propria ben distinta vocazione poetica immaginativa. A tal proposito citai allora una definizione di Henri Michaud: “les espaces du dedans”, “gli spazi dell’interiore”. Tutto il lungo percorso pittorico di Notari si sviluppa in effetti lungo questo asse di “spazio interiore”, che già dunque nel ’67 appariva molto evidente. E dico nel ’67 in quanto soltanto allora ebbi occasione di scrivere sul suo lavoro. Ma Notari operava almeno dall’inizio degli anni Sessanta, e anzi dalla fine dei Cinquanta. Una definizione di misura interiore alla quale è rimasto sempre sostanzialmente fedele; e fedele naturalmente attraverso tutta una serie di vicende e movimenti che si sono prodotti all’interno di questa sua dimensione immaginativa, sostanzialmente in fondo di consistenza onirica.

    Se ne avessimo il tempo, se ne avesse voglia Notari, sarebbe interessante tentare un dialogo, una sorta di analisi dell’origine di tutti questi suoi fantasmi, queste sue particolarissime immagini che circolano nella sua fantasia e risultano infine determinanti nella configurazione della sua pittura; e che non hanno nulla a che fare con l’intenzione di una rappresentazione e di un riscontro diretto con la realtà, risultando chiaramente tutte orientate verso un continuo ascolto interiore profondo, e piuttosto che ad una sorta di diario. In fondo è come se Notari ascoltasse l’affluire ed il pullulare, anche abbastanza drammatico in certi passaggi, di fantasmi e riferimenti che toccano talvolta riferimenti di mitologia, ma che sostanzialmente risultano appunto da una sorta di ascolto interiore; di un interiore che viene però in qualche misura da lontano. L’aspetto interiore può essere infatti anche una sorta di confessione, di scrittura immediata; la pittura di Notari invece è sempre stata mediata perché meditata, e la meditazione sviluppata da Notari consiste, direi, anche nello sforzo, nella battaglia, nella difficoltà di riuscire a dare figura a questi fantasmi, a queste pulsazioni interiori, a questa dimensione onirica. Che egli è riuscito sempre ad oggettivare dandole una consistenza di immagine, una configurazione che ha valenze simboliche che a volte si definiscono appunto in allusioni a miti, che sono poi sempre fondamento di tante situazioni simboliche, che perciò tendono ad oggettivarsi.

    Questo ascolto interiore è la dimensione sulla quale Notari ha vissuto la propria vita di pittore e di poeta manifestatosi attraverso la pittura. È chiaro che si tratta di un personaggio solitario: su questo non c’è dubbio. È una scelta che ha fatto fin dall’inizio; è una scelta che va e andava, lo dicevo nel ’67, controcorrente. Tuttavia credo che la misura per giudicare un’artista sia sempre soltanto quella della reale rispondenza ad una necessità interiore di identità, ad un’urgenza esistenziale di propria identità. Quella di Notari è un’identità che si è definita, e continuamente si ridefinisce, in questa proiezione critica, in questa sorta di frequentazione di un altro mondo in cui si sviluppa quel suo dialogo continuo, in una continua novità di fluttuazioni, di situazioni che si affacciano come figure criptiche e in qualche modo anche magiche, assillanti ed angoscianti, eppure liricamente distese. È un mondo che apparentemente si muove in un canale dalle sponde abbastanza definite, ravvicinate, ma in realtà al di dentro del quale c’è un flusso di una grande varietà. La forza di Notari è stata quella di rimanervi fedele nel tempo.

    Credo tuttavia sia stato uno sforzo anche facile in qualche misura, pur nella sua indubbia difficoltà, proprio perché rispondeva sostanzialmente infine alla sua natura introspettiva. Ecco: il suo è un esempio di resistenza sulla propria natura, mettendola in gioco dal di dentro di questo suo particolarissimo orizzonte. È una scelta naturalmente che gli costa alla lunga, ma che alla fine è anche qualcosa che gli garantisce di arrivare a rispondere a questa necessità di identità. E questa è la misura reale del senso dell’ arte, dell’utilità dell’arte, perché ci dà delle dimensioni autentiche di risultati sia nel grande sia nel piccolo, e insomma nelle più diverse misure di consistenza. L’universo dell’arte infatti è costituito da un tessuto di cose molto varie come quantità, come qualità, come aspetti, e come intenzioni. Questa è la straordinaria e avvincente avventura dell’arte.

    Ma se Notari è vissuto sempre, e tuttora vive, sostanzialmente entro i confini d’un proprio particolarissimo mondo immaginativo, l’origine delle sue scelte non è tuttavia stata fuori della storia. La sua prima affermazione individuale si è configurata infatti storicamente nel clima di uscita dall’Informale, dopo averne condivisa qualche esperienza. Che cos’è stata l’esperienza dell’Informale, che ha dominato la scena artistica europea e americana nei secondi anni Quaranta e lungo i Cinquanta? Sostanzialmente ha spostato la dimensione del fare arte da una misura ideale a una misura di vissuto, giacché la ha coinvolta entro la condizione d’esistenza dell’artista. E questo ha dato luogo alla pittura di gesto, tipo Pollock, alla scrittura come confessione segnica dell’individualità, diario quotidiano, tipo Wols, alla pittura di materia, tipo Burri, al fatto di confrontarsi col muro, tipo Dubuffet e poi Tapies.

    E tutto ciò aveva come punti di riferimento da una parte l’individuo, qui e ora, e dall’altra parte, attraverso questo “qui e ora”, una sorta di dimensione di totalità della realtà, ma intesa come un mondo prima ancora che si formasse, una specie di natura primaria, magmatica. Ora tutto lo sforzo dei giovani della generazione di Notari è stato quello invece di riuscire a riconquistare una dimensione d’immagine che tuttavia non fosse più una dimensione di spiazzamento in un riferimento ideale, ma che comunque fosse sempre ben al di dentro di questa realtà dell’esistenza. Realtà che fra l’altro alcuni di tali giovani scoprivano come una dimensione di esistenza collettiva, cioè in consistenza sociologica, che è il terreno del Pop Art, e di parte della Nuova Figurazione. Tuttavia un altro aspetto di questa Nuova Figurazione era invece di carattere visionario e onirico. Ed è proprio questo il momento di aggancio della ricerca iniziale di Notari con una storicità ben precisa. Ma mentre poi le cose sono andate evolvendosi in varie situazioni, Notari ha approfondito fino ad una sorta in qualche modo di autosessione una tale dimensione di scandaglio interiore. Già appunto nel ’67 dava un’indicazione abbastanza precisa di essere un personaggio che scartava nella propria rotta rispetto alle posizioni costituite, andando avanti secondo un itinerario del tutto proprio. Come del resto accade tuttora.

 

Enrico Crispolti, Parole per Romano Notari nel vento di Portonovo, presentazione in Romano Notari. Percorsi preziosi. Opere 1966-2000, catalogo della mostra personale, Bambaia Galleria d’Arte, Busto Arsizio, 14 ottobre-26 novembre 2000.

 

 

Una pittura magnetica, quella di Romano Notari allorché, entro il suo stesso itinerario creativo, si indaghino i vari passaggi tematici scanditi in oltre quarant’anni di inimitabile carriera che non trova uguale coerenza nel panorama nazionale ed europeo. È il magnetismo di cui godono le stelle di prima grandezza nel firmamento variegato delle arti visive e che nelle varie diverse esperienze può riassumersi in elementi portanti stilistici o di contenuto, che diventano agli occhi del grande pubblico veri archetipi in grado di stregare, coinvolgendo mente e cuore indirizzati verso le sfere del sublime.

    Voglio qui esemplare questo concetto producendo esempi concreti, come quelli di Licini, Tàpies e Morandi. Osvaldo Licini fu personaggio che seppe delineare la vocazione dall’uomo all’esperienza lirica anche se eretica, dischiudendo all’occhio del lettore il magico perimetro della poesia. All’opposto, lo spagnolo Tàpies lo riteniamo ormai nostro indelebile patrimonio per la sua capacità di scandagliare in profondità non più la componente divina del nostro essere, quanto piuttosto la lassitudine della materia da cui proveniamo, nel suo perenne moto di espansione cieca, antagonista allo spirito. Quanto a Giorgio Morandi, come non restare in posizione di trasalimento ove si consideri la perizia di cantare il sentimento del tempo la cui polvere inesorabilmente si deposita sulle cose, ivi compreso il nostro cuore che di giorno in giorno si appesantisce nel suo ritmo. C’è un fascino nostalgico nella registrazione del discreto ma reale sopruso della polvere del tempo nei confronti delle sue nature morte, le mitiche bottiglie del suo studio bolognese. Gli anni sono scanditi dall’esercizio pittorico dell’accumulo della precipitazione. Sull’esempio di questi grandi che, come detto, sono stati citati per lumeggiare il concetto di magnetismo col quale ho iniziato questa mia testimonianza critica, senza ombra di dubbio è lecito affermare che la stessa via interpretativa è praticabile parlando della pittura di Notari. Forse è ancora più facile individuarne l’essenza che, al dire di tutti gli studiosi più autorevoli che a più riprese si sono interessati alla sua ricerca, risiede nel desiderio ardente, e sembrerebbe mai appagato radicitus, della luce connotante in piena libertà il tracciato visionario.

    Sapientissima l’amministrazione dei vari registri sintattici ed emotivi della luce in un equilibrio magistrale tra qualità e quantità, tra vertici e profondità con un sempre incalzante e fluido gioco di relazioni, nonché scambi di energia tra una luce tonale priva di afflato materialistico ed una incendiaria, quasi fisicamente oggettuale e divoratrice. Sì, divoratrice dal momento che qualsivoglia barriera anatomica che vi si frapponesse, verrebbe ingoiata dalla sua azione soteriologicamente distruttiva, perché lo spazio occupato dai corpi divenga habitat del numinoso, la cui voce, come ricordano i testi biblici, si propaga dal querceto in fiamme. È noto a tutti l’aspetto ripetitivo e quasi monocorde dell’opera di Notari per quanto concerne l’aspetto cromatico; lungi dall’essere sintomo di un declino negli anni, o di una stanchezza creativa, io la leggo come sincera confessione di inafferrabilità del numinoso a cui si faceva cenno. Nel momento in cui la sente, la vive, la pratica, la dipinge per carpirne il sigillo ultramondano, la luce gli diventa ribelle e sfuggente, gettando in crisi l’artista che si era illuso di aver riproposto nel presente l’impresa prometeica.

    Prendendo il pennello in mano, Notari pensa alla luce, aspira alla luce, che poi altro non è che l’amore inteso come espansività. Un nuovo capitolo ermeneutico ci induce ad osservare come l’ardore serafico responsabilmente pianificato nelle scene millenaristiche del maestro umbro, sia condizione vantaggiosa per una proliferazione della vita siano essi esseri umani o appartenenti al regno animale o desunti dal leggendario mondo mitologico e persino dalle tradizioni orali ultramondane, parareligiose. Una figuralità arabescata ed incombente sino a saturare gli spazi delle tele, con una tendenza ad oltrepassarne il perimetro in modo anarchico, bizzarro e talora catastrofico. Tale disprezzo del perimetro, dei limiti da parte di questo novello Ercole, ci induce a ritenere la sua pittura inserita nel grande capitolo del Surrealismo. Notari, in qualità di profondo conoscitore dell’epoca in cui viviamo, che ha registrato l’avvento epocale di un nuovo millennio, per un verso nel suo visionarismo profetizza una nuova Città del Sole ed al contempo stila un giudizio di merito a riguardo della contemporaneità. Mirabilia in urbe: cose meravigliose prefigura egli in questa nuova città campanelliana; questo il significato dell’espressione a suo tempo adoperata da Russoli nella lettura dell’opera di Notari prisma delle meraviglie, in esso si generano amori trasparenti o proibiti, amori solari, metamorfosi d’amore, sogni d’amore, apparizioni, giardini proibiti, sogni del cigno, apparizioni dello spirito, foglie della passione, momenti di luce, uccelli sole, funghi d’amore.

    Nella surrealtà, vagheggiata con animo vorace, Notari cerca l’essenza della vita, per cui la sensazione è che la luce-amore, a cui si è fatto riferimento, non possa prescindere dalla fertilità genesiaca. Impossibile coartare questa carica espansiva della luce-amore, vertiginosa come fiume in piena, che la logica non potrà circoscrivere. L’itinerario della fecondità è ben espresso dall’andamento ovoidale delle forme che lussureggianti vegetano secondo un ritmo circolare d’ispirazione cosmica. Non di rado, sgomento, lo spettatore nell’inseguire sulla tela le epifanie frenetiche e le contorte evoluzioni dei corpi, scorge tra gli agglomerati figurali sembianze di mostri, serpenti, coccodrilli, draghi dalla bestiale sensualità: ma totalmente immerse nell’apocalisse ignea, quelle figure per un elaborato processo autofagico partecipano della medesima vocazione onirica degli altri personaggi più rassicuranti della narrazione fantastica. Ed a proposito di narrazione occorre rilevare come il pittore abbia una disposizione quasi maniacale verso il linguaggio grafico; in lui sempre il segno è formativo dell’immagine e pertanto asservito al disegno. Un’immagine per lo più embrionale, destinata com’è per vocazione ad ulteriori ampliamenti formali che sovente collimano con certi stilemi barocchi. A Notari non dispiace una controllata disposizione delle scene alla decorazione, in perfetta sintonia con lo splendore e la magnificenza del discorso luministico. La valorizzazione della grafia o meglio della spigliata calligrafia retrostante la fornace di luce/calore, è dimostrazione di compostezza linguistica a cui mai l’artista è venuto meno. Voglio dire che egli, con il suo caratteristico repertorio cromatico avrebbe anche potuto censurare qualunque dicitura con la cancellazione totale del racconto.

    Al contrario, sullo sfondo di un palcoscenico indubbiamente dominato e quasi di forza assediato dalla luce solare che abbaglia, pullulano mirabili tessiture segniche, codici formali delle sue surreali fantasticazioni strutturate con spirito loico per sequenze. Nell’avanzare qualsivoglia ipotesi interpretati va dell’opera di Romano Notari, è d’obbligo, perché preminente, il riferimento all’erotismo. A mio avviso raramente nella pittura italiana del secolo appena concluso, è dato percepire vibrazioni di intenso erotismo come accade per la sua pittura. Tante le coordinate che suffragano questa tesi. Basti pensare a quelle calamitanti occhiaie, a quei globi di luce ferina che sembrano appartenere ad esseri in preda a folli passioni d’amore. E poi quelle continue sollecitazioni all’abbraccio, alle effusioni indiscriminate, nonché alla superproliferazione di certe parti anatomiche viscerali e l’inserimento di simboli fallici: è posta in essere per lo spettatore una esemplificazione di quella laica e rinascimentale gioia di vivere tanto apprezzata dall’uomo contemporaneo.

    L’estaticità degli incontri che parrebbero sincopati in una infuocata alcova dannunziana, da serpentine evoluzioni dei corpi e dal crepitìo della luce in lievitazione e tattilmente spalmata sulle membra lasse per le fatiche d’amore, è in continuo divenire, in fieri diremmo, in quanto sostanzialmente aperta ad ulteriori avventure. Un divenire equivalente a sempre più eccitanti pagine erotiche visioni che per un verso soddisfa la predisposizione voyeristica dello spettatore ed al contempo serve a scandire la temporalità delle fasi narrative. È doveroso evidenziare nel dettato erotico di Notari l’interazione o meglio la convivenza dell’estasi sacra con quella profana, o carnale, se si preferisce. Non contraddittorie l’una all’altra, ma in reciproco rapporto se è vero che l’estasi della mente, dello spirito non può che coinvolgere anche il corpo, al dire dei grandi mistici che ne hanno avuto esperienza e che certo sfuggono a giudizi moralistici gesuitici. La bellezza dell’unione — questo è il messaggio di Notari — spirituale o carnale che sia, non potrà mai essere turbata allorché la si contempli sciogliersi ed annullarsi nel vortice della combustione magmatica della luce.

    Tutte le tappe dell’inimitabile ricerca notariana, è indubbio questo, sono scandite dal desiderio dell’artista di raffigurare una realtà impigliata nel mistero della luce/calore/amore in grado di purificare ogni pur terrestre o tragico riscontro aneddotico. In tal modo l’Eros diventa segmento di spiritualità, mentre certi innesti nel contemporaneo, estremamente conturbanti per la loro drammaticità (si pensi agli avvenimenti dell’11 settembre scorso, ovvero all’abbattimento delle Torri Gemelle a New York) appaiono anch’essi sottoposti allo stordimento catartico della luce: Notari aveva prefigurato in alcune sue opere la tragedia americana qualche tempo prima, a riprova dell’intuito profetico dell’artista, il cui ruolo nella società è quello di denunciare i mali attuali e possibili ed al tempo stesso ipotizzare soluzioni perché si tomi ai valori umanistici. Notari ha sempre avvertito il forte impegno morale di partecipazione alla realtà del nostro tempo, esprimendo la propria solidarietà agli sforzi di rinnovamento sociale. Il medium linguistico-pittorico con cui estrinsecare la sua coscienza civica, come ampiamente dimostrato, è stato quello della luce che se da un lato appare efficacissima nel fermentare gli orizzonti di vita, dall’altro attua quel necessario processo di spoliazione corale della matericità del reale.

    Lo stesso repertorio simbolico (si pensi agli uccelli del paradiso, iconografia in lui ricorrente) è pertinente a questi orizzonti etici le cui virtualità creative sono davvero ragguardevoli. Forse la radice esistenziale e direi sociale della pittura di Notari dovrà essere ancora studiata ed approfondita dalla critica più autorevole: la presenza costante di nuclei antropomorfi costanti, talora in posizione speculare a quindi dialogica, di immagini, che risultano esorcizzati dalla luce ignea, è segno di una prospettiva espressamente legata all’uomo ed al suo patrimonio psicologico.

 

Leo Strozzieri, Romano Notari: Lo stordimento catartico della luce, presentazione in Aprimmo e vedemmo. Notari. Opere dal 1965 al 2002, catalogo della mostra personale, Sala Chierici, Bastione Est, Castello Cinquecentesco, L’Aquila, 28 luglio-4 agosto 2002.

 

 

 

I

 

Quando siamo di fronte ad una poiesis della metamorfosi, nell’arte del nostro tempo, i miti tornano a popolare il paesaggio del moderno. Scopo dell’immagine non è l’avvicinamento del suo significato alla nostra comprensione, ma la creazione di una particolare percezione dell’oggetto, l’innovazione della sua visione e non del suo riconoscimento. L’inconstanza dell’immagine è dunque produttrice di senso multiplo. Non è mutevole il leitmotiv e costante l’immagine; diremmo piuttosto che è vero il contrario: è la cifra iconica a darsi come mutazione continua della costanza del proprio tema pittorico. È ciò che accade nei dipinti e nei disegni di Romano Notari, che fanno sì che l’immagine, intesa come continuo straniamento, si proponga come continuo luogo della propria diversificazione che avviene non in termini platonici, ma in re, nella doppia dimensione dell’immaginario: “da un lato il lavoro della verità del mondo, dall’altro la perpetuità di ciò che non tollera né inizio né fine”(1).

    È nella metamorfosi, in questo luogo vuoto e puro nel quale “scopre vivissime somiglianze fra le cose”(2), che la forma ritrova la propria dimensione, il proprio modus essendi. È la forma che salda l’invisibile e il visibile in un tutto armonico: è la forma che, in quanto sostanza formata, ricostituisce il corpo universale dell’essere, annullando in esso la distinzione tra essere ed esistere, come una sproporzione che si proporziona nella propria entità linguistica. L’emotività è data diremmo, più che dal senso che mira per la sua natura sensibile al significato, dal concetto del suo sovrasenso, cioè da questa asimmetria che, allo stesso modo di due abissi, sopravvive come giusta misura: come proportio sui. Nei quadri di Notari è l’immagine come rapporto con l’immaginario, come spostamento del lógos nella sua continua parzialità, o porzionalità linguistica, che completa quell’“essere il tutto nella parte”(3) appunto con la propria continua possibilità allegorica di trasferirsi e di realizzarsi nella metamorfosi di un viaggio ultimo-primo delle mêtis colorata dell’artista. In effetti il pittore umbro si è fatto esploratore e naturalista dei paesi lontani della fantasia, del “lontano interiore”(4): perché quanto più avanza nella verità laterale e divisa, tanto più sente di ricostituirne il nucleo centrale, e tanto più sente di attingerne la coerenza suprema quanto più scende, con ogni mezzo, compreso il ductus grafico, nella sua intima e vorremo dire infinita incoerenza. Se “la natura ama celarsi’’(5), secondo Eraclito, ecco spiegarsi la ragione della luce senza frontiere, senza soglia della pittura di Notari — che egli sperimenta sin dalle tempere su carta Processi in due tempi del 1959-63 e Il bacio del 1960 —, dopo che ne ha visto l’immensità senza figure alzarsi fino alla volta del cielo, dopo che ne ha captato il cristallino rutilare all’orizzonte, di cui segna il limite immisurabile come uno zampillo di matasse radiose che spiova in masse sinuose di pietre preziose. La luce emerge dal fondo della tela o del foglio, è fluida come l’acqua che sgorgando rifulge in cielo, anzi s’inventa il proprio cielo ricadendo appunto in masse sinuose di rubini e di zaffiri gialli.

 

II

 

I segni linguistici sono gli elementi basilari della barthesiana criptoscrittura, una dottrina semiotica che analizza i fenomeni di segnalazione, di comunicazione, di percezione di segnali significativi. Nel campo dell’arte figurativa, il segno, da dichiarante esclusivo e complesso, si è fatto sempre più essenzializzato e “minimo” fino a divenire di per se stesso, e in diverse accezioni, denotatum. Il sintagma iconico come proposta di una tipologia segnica inconsueta (in aree di significazione maggiormente aggregate, eterogenee e sovraccariche di senso) è la ricerca intrapresa, sin dalle prime prove su carta, da Romano Notari. Il quale, tuttavia rivela di non poter prescindere da una libertà d’invenzione e di riflessione, non contraddittoria al rigore, ma da quell’esercizio emergente con forza propulsiva che sembra scardinare un ordine tendente invece a ricomporne uno imprevisto: l’equilibrio di un “percorso” di sistemi segnici aperti che protendono ad una rinnovata dialettica realmente intuita tra affermazione e negazione, posizione e sottrazione, certezza e recupero delle diversità.

    In Uccelli colloquiali del 1953 e in Coccodrilli al sole del 1955 l’articolazione di superfici colorate e di brevi segmenti lineari — tracce carbonizzate, quasi appoggiature di timbro, che hanno una diversa reazione alla luce, con effetti di suggestione psicologica, di richiamo lirico immediato — è disposta verso un’articolazione ordinata, a cercarne le scansioni. Sennonché, il piano del quadro, mai considerato supporto inerte, si sensibilizza ad una particolare sintassi che in poco o nulla si ricollega alle esperienze magiche di un Klee o di un Kandinskji: non è più il foglio su cui si trascrivono i risultati dell’imitatio natura, bensì il luogo fisico nel quale i segni agiscono secondo le forze dosate dalle diverse frequenze ritmiche. Nel periodo degli esordi, nel quale quasi non osa accostarsi alla pittura e si esercita intensamente a disegnare, Notari mette a punto quei valori e la loro virtualità: scopre la forza della linea-luce, o meglio della luce che nasce dall’energia implicita del segno; e la costruttività del monocromo, il nuovo mondo della tonalità che ci porta “ad uno spasmo ottico [ ... ], qualcosa che il primo Cassola dei racconti giovanili potrebbe ricordare, con quella sua fermezza cortese ed estatica; oppure la ruvida ed appassionata memoria di Rigoni Stern, se subito quest’ultimo non ci trascinasse nella favola più immaginosa”(6).

    Tuttavia, l’individuazione di quei valori implica un riesame, secondo una nuova prospettiva, della storia. Con Metamorfosi del 1961 e con la suite di Processo del 1962-63 Notari riconosce in Kafka il suo vero maestro e non nasconde la propria perplessità davanti alla pittura astratto-concreta; ma presto si accorge – come ha ricordato Carlo Cardazzo (7) – che Van Gogh è riuscito a superare l’orizzonte sensoriale dell’Impressionismo e a trasferire nel segno la forza simbolica del colore. Nella sua ricerca figurativa, di una qualità sempre più rarefatta, quintessenziale, ha il senso dello Enchiridion erasmiano, che aveva colpito anche il Dürer incisore e “miniaturista” di fiori e di animali. Il problema è posto in termini chiari: l’astrazione, il puro formalismo, sono ancora modi di salvare un patrimonio di forme esteticamente scadute. Si cerca di conservare dei valori, ma in realtà si conservano soltanto delle macerie. Un mondo dissociato, che ha smarrito il senso dell’unità e si frantuma e si dilania nella violenza muta ed oscura, come quella che si avverte nelle novelle di Kafka, non può avere una cultura diversa”. Di fronte “allo stupore per il fatto che qualcosa esista”(8), scrive Witgenstein a proposito del pensiero filosofico di Heidegger, ormai a Notari non resta che un obbiettivo: riportare il pathos neoromantico in quella astrazione che è, comunque, l’aspetto storico dell’arte moderna. Dal dispiegarsi dell’energia interna dei segni (Sospetto d’invasione del ’65), dal loro combinarsi e comporsi (L’ora del Santo Spirito del ’66), risulta la forza di significazione, la capacità di esistenza delle immagini che, risalendo dal profondo, dalle radici stesse dell’esistenza, si chiariscono nella coscienza e diventano i moventi dell’agire quotidiano, delle idee, infine, che accompagnano la vita giorno per giorno e formano il mondo non visibile nel quale ci muoviamo. La realtà è un’incessante metamorfosi: è un pensiero che Notari eredita da Bosch e da Blake e ha in comune con Kafka e con Ernest.

    In effetti chi guarda la serie grafica del Fungo d’amore del 1976 potrà provare a cercarne le pause, le improvvise e conseguenti accelerazioni tali da fare del vuoto una forma e delle forme un fondo al quale le acquarellate nuances policrome conferiscono un palpitante fulgore luminoso. E mentre si accorgerà di come ricompaiono rafforzandosi elementi che sembrano disperdersi dentro un ordine chiaro, scoprirà, insieme all’evidenza tattile dell’opera, la sua dichiarata genesi e crescita, scandita dalla ripetizione e nell’emergenza dei segnali. Scoprirà ancora come nessuno degli elementi “minimi” che compongono l’immagine complessiva dichiari una periferia, contribuendo al contrario alla pulsazione, al ritmo dell’immagine continua; la quale si estende e si restringe con una nuova libertà derivatale dalla rottura dello stilema sia figurativo che geometrico.

    Anche se gli archetipi di elaborazione sono in gran parte gli stessi, quelli del calcolo percettivo e della contrazione di ogni effetto pittoricistico, la Stimmung poetica di Notari ha conosciuto bruschi cambi di rotta, percorrendo una propria autonoma traiettoria. Quanto le tavole degli anni Settanta — da Ledacigno del ’75 a Giardino d’amore del ’78 e ad Apparizione dell’anno seguente — erano cariche di materia umana, di spessore d’esistenza in cui prevaleva il frammento antropomorfo o di natura, tanto quelle dell’Ottanta — da La foglia della Passione dell'’82 a Metamorfosi d’amore del 1988 e a Parto floreale dell’89 sono fatte di sogno, di arcano lume: come se la luce notturna della luna o quella della diffusa aurora potesse, miracolosamente, coagularsi tutta in un filo; e questo filo distendersi, attorcigliarsi, intrecciarsi, andare da un punto all’altro della composizione, occupare armoniosamente lo spazio.

    Allo stesso modo di un lontano e sfuggente Laborinthus il nostro artista progetta una struttura iconica situabile tra la costruzione delle differenti voci che si svolgono simultaneamente nel contrappunto musicale e la costruzione in pericoloso e intoccabile equilibrio che traccia il filo della penna di Klee. È un’indagine che, pur essendo rigorosamente linguistica (in quanto reinvenzione di una scrittura che non si dà più come ripetizione all’infinito, ma come sistema), ha anche uno spiccato valore metaforico, sino talvolta ad una specie di metafisica della prassi dialettica. Non di meno, è giusto rilevare che la struttura serrata delle opere notariane dell’ultimo decennio (tra tutti citiamo i collages Vidi cose tanto nuove del 1997 e Cariatide impossibile del 2002) non è mai bloccata, fissa, immobile, poiché le stesure non sono piatte e lisce ma formicolano di strisce, di fermenti organici, di brevi incroci di scale cromatiche e di filamenti scalfiti che una mano matura li conduce rapidamente verso il luogo dove il finito e l’infinito, le forme assolute e le forme instabili si congiungono, spostando — annota con acume ermeneutico Roberto Tassi — “l’agitazione orribile del mondo che si ferma con le sue onde lutulente a lambire le cinta del suo giardino, e che l’attraversa solo filtrata, depurata, fattasi stimolo luminoso e puro”.(10)

 

III

 

La fenomenologia del linguaggio messa in atto da Notari risponde sempre sostanzialmente a uno scandaglio interiore, che di volta in volta si attualizza attraverso un evocativamente circostanziato, e coltivato, rapporto emotivo profondo con l’eikón, con l’immagine ingannevole della metamorfosi. Nelle tele Omaggio a Te-A del ’62 e Ora calda del ’66, spiritualmente, la sua pittura è ancora collegata idealmente a quelle che si potrebbero chiamare le poetiche della contraddizione di un Rilke e di un Rimbaud. Di quest’ultimo — in Un cuore grande così del ’67 — sembra ereditare l’agonia dell’immagine come luogo di confine, chòra dell’esistenza. Senonché, alla poesia en avant di Rimbaud, Notari sostituisce il retour amont del linguaggio, la necessità del prelinguaggio, del silenzio anteriore. AI bois qui se trouve violon, al cuivre che s’éveille clairon rimbaudiani, egli — e in definitiva la pittura del decennio ’60-’70 nei suoi punti più avanzati — contrappone un violon che ritrova il bois proprio al fondo della propria funzione, un clairon che s’addormenta nel proprio sonno di cuivre.

    Del resto, in Arcobaleno troppo del ’72 e in Dentro su di noi dell’anno appresso, vogliamo pensare per un istante alla musica elettronica, al suo suono bianco? E non è una retroversione, una marcia indietro: la voce concertata dall’abisso, una voce che intrattiene e lusinga la dannazione dell’uomo nel golfo mistico da cui si leva l’illusione catartica del Romanticismo, ritrova amont la naturalezza non mascherata dalla funzione. Non Je est un autre, bensì “Un altro e l’io” (11).  L’Io del poeta o del pittore viene dopo, è un altro: sarà la propria opera, che è opera di identificazione, a suggerirglielo. Quello che era stato il “veggente” rimbaudiano in Notari ha bisogno di questo éclair ripetuto nel pieno della mente, nascosto nel maquis spirituale, egli ne è il ganglio nervoso: riceve e trasmette la grande funzione come una scossa elettrica, “che riveli il destino dell’uomo, dalla nascita alla caduta, in uno spazio che è già tempo, divenire continuo”(12).

    Certo, di origine informale è la radice costitutiva del linguaggio pittorico di Notari, nel senso di una possibilità di liberazione diretta, se non immediata, in una corsività segnica e gestuale costituente il tessuto dell’opera, sia che vi si eserciti in stilema delineante e situazionalmente allusivo, sia che vi si assimili tissularmente quale sostanza medesima della pasta materica. La sua tavolozza, esuberante oppure rasa, tesa e uniforme, è pur sempre sontuosa e di qualità schiettamente specifica, con “quella splendida variazione di rosa, carnecina e sommessa, diafana e densa, di giallo scaldato in arancio, d’arancione smorente in giallo”(13), che vive la genesi in una totale identità con il proprio esercizio esistenziale. Esso sembra rispondere in particolare a quel moto pittorico, quasi centrifugo, che configura Adoranti del ’75, o alle larghe ma tecnicamente rastremate cadenze di Amore solare del '77 . E va detto intanto che l’acquisizione di un rapporto panico di una cosmogonia visionaria segna in questi due oli un’acquisizione espressiva, forse non così allora evidente nelle sue conseguenze ma che indubbiamente risulterà determinante nelle formulazioni estensive di mero attualismo sensibile degli anni Ottanta e Novanta.

    Il valore della poesia sta nel suo carattere “indicativo”, come Eraclito diceva dell’oracolo delfico. Perché se l’io è — come si suoi dire — la parola, se Orfeo è il proprio canto, bisognerà, andando oltre la pittura di Notari, sostenere piuttosto che l’immagine è tale in quanto, subito inizialmente, è l’altro. L’artista non è rapito, bensì identificato dalla propria figura, ma proprio come l’altro da sé, il grande altrui che convive e lotta in interiore homine e fa sì che l’uomo esista non come Narciso perpetuamente davanti allo specchio, bensì come il luogo stesso, il centro dell’alterità, se l’alterità può avere un centro e non è dappertutto. L’uomo cioè, s’identifica per opposizione, “come ombra di luce, che giornalmente cresce, diminuisce e dilaga e si condensa come fermento incessante entro cerchi di vitamorte”, e noi diremmo ancora che si avvicina perpetuamente a se stesso. Ed è allora, sì, la pittura che fa pittore, non viceversa. Non è tanto Orfeo che sposta le rupi col canto, quanto sono le rupi che spostano con la loro essenza originaria Orfeo infitto in una natura e in una società naturalizzata, che lo teneva prigioniero del proprio presunto luogo come Dafne nel proprio alloro.

 

IV

Partiamo da una affermazione di Romano Notari: “Il mio lavoro è dialogo doloroso, ossessivo tra me e l’opera, tra le visioni che vorrei salvare e le contaminazioni che debbo combattere”(15). Dal contrasto indiziabile nel rapporto tra ricerca e insorgenza dei dubbi, tra l’impossibile concretezza della visione e l’intrico materico-esistenziale, germinano le metamorfosi del nostro: cioè a dire i procedimenti espressivi che accavallano e agganciano identità e differenze allo stesso tempo. Ciò significa che l’opera di Notari persegue un’immagine di precisione — e il suo stampigliarsi nel testo — che il senso della tradizione e delle certezze accumulate lungo il muro degli anni fanno intuire come pregnante e immediatamente raggiungibile. Ma al medesimo modo l’integrità, o la possibile integrità della visione viene intaccata e compromessa rovinosamente, come uno di quei caveaux de verre che ha scoperto sotto terra, una di quelle grotte sacre che ha svelato da bambino nelle colline che circondano le fonti del Clitunno. È la grotta che, in Via sole del 1978 e in Verrà il tempo in cui ... del 1979, emergendo dal buio della terra, pervade tutto l’arco celeste del suo scintillio sacrale e notturno. 

    Nell’immagine scavata nella sua vita come rocce calcaree Notari risale l’abisso del tempo, ne riode l’antico stormire, verso uno spazio che è “isola” di “sentimento del tempo”, sporade mitica di questa sua ricerca del paradiso perduto, ma che è soprattutto l’anima primigenia nel respiro della sua entità naturale. Anzi, il caos si fa cosmo(16) in questa partecipazione umana all’evento della creazione, della sua continua creazione. La memoria dell’autore de La foglia della passione dell’83 e del Giardino proibito dell’84 altro non è che il ricostituirsi, sentito dentro e attraverso il linguaggio, di questo corpo universale: se è, sì, memoria di un’ innocenza perduta, è anche barlume di un’innocenza possibile come piena coscienza. Ora l’ombra o, meglio, “il sole dell ‘ombra”(17) è quasi germinalità sotterranea e subacquea della luce, di cui l’artista umbro ripercorre le fusées andando con la memoria inventiva, piuttosto che in un presente senza tempo, a ritroso nel suo passato, come nel grembo materno dove ha vissuto la vita fetale a occhi chiusi, a pugni chiusi, crisalide della futura farfalla iridescente non appena, roso il buio della prigione-culla, viene in contatto con la luce: “Come un baco nascosto nel bozzolo / quando gli spuntano le ali / s’inizia al baco e si logora le sue tenebre”(18).

    Le ragioni di tutto questo sono intuibili, ma al limite, inteso che le opere non sono la descrizione quanto il sismografo di una crisi, esse potrebbero apparire inessenziali ai fini di un discorso sui testi. Quello che importa — e compare — è infatti l’ordito in cui arrivano ad incunearsi i diversi sintagmi e le diverse, opposte, combinazioni espressive. In luogo di una frattura verticale o comunque di una scissura tra le diverse componenti (per cui l’una unifonna un quadro o prevale a seconda degli attimi), si ha una sorta di unità determinabile dal connettersi di due diverse tensioni emotive. La rappresentazione non si omologa a nessuna delle due, preferendo l’adesione ad entrambe; si decalca in definitiva su un nucleo sempre avvertito unitariamente, sia pure nel contrasto: visione come contaminazione, per l’appunto, con le stigma foucaultiane di una vocazione “orientata in senso religioso, di una Christian watchfullness, di un autocontrollo finalizzato alla salvezza”(19).

    All’origine c’è probabilmente la totalità dell’arte e della vita passate: filtrate dentro il paesaggio, nel milieu e nell’air ambiant, nell’abitudine a guardare e a giudicare, a percepire sensitivamente, secondo un’immagine mentale forgiata nella consuetudine. Che questo si sia risolto e si sia potuto svolgere in spiritualità, come è parso a certuni, può anche non revocarsi in dubbio. Ma giacché si è pure parlato di una religiosità in un qualche modo irrelata e a sé stante, preferiamo personalmente optare per una forma di spiritualità indeterminata e lucida, tutta protesa verso la luce e la visione, attenta a cogliere nei processi della rappresentazione il rifrangersi, problematico e deperibile, di un’intensità e di un apriori tutt’affatto intellettivi. Tale pienezza è quella del cosmo, quella dell’unità tra creato e individuo in un eden remoto e irripetibile. Essa appartiene, piuttosto che all’opera e alle concrete realizzazioni, al sentimento che uniforma il processo fantastico ed espressivo. È nella cultura (una cultura assommante in sé i connotati della natura) che confluisce nei postulati di poetica, prima ancora che in quest’ultima. L’unità primigenia o la sua idea; la speranza che essa ci sia comunque stata è ormai infranta. La totalità — il tutto al di dentro di un cerchio in ogni parte noto — è pervasa e percorsa dagli accidenti del caso: contaminata in forme irreversibili. L’opera di Notari nasce da questo: dall’angoscia di un qualcosa che, indefinito che sia, è andato perduto, smarrito agli uomini per sempre.

    Va da sé che la consonanza col paesaggio nativo (che da fisico si fa interiore e, in progressione, mentale) è per questo determinante. Non per ciò quella purezza e intensità sono da intendere quasi nostalgia del sacro. La propensione al metafisico, al sovramondo perfetto e sereno, riesce invece ricordo struggente di una felicità primitiva, prenatale. Ed è la tensione verso qualcosa che sia in qualche modo assoluto e totalizzante a comporre, nel rapporto e nel contrasto verso tutto ciò che appare transeunte, la poetica e la stessa produzione del nostro artista. Ma in un simile compito Notari tiene conto del peu à peu baudelairiano: il lampo in dipinti quali Fantasia d’amore del 1985 e Autoritratto con amore dell’anno dopo occorre rallentarlo, perché esplichi l’originaria funzione che gli è propria. E forse l’opera di un pittore nella sua integralità non è che questo tentativo di fermare il lampo scoccato dalla destra di Zeus: davvero una restituzione. Notari in tal senso — puntualizza suggestivamente Luigi Carluccio — è il “Gran Maestro dei Rosa+croce”(20) in questa lotta eraclitea di un divenire che si svolge tra i contrari per affennarsi come un essere integrale, che bandisce “dal campo della rappresentazione artistica tutto ciò che non risponde al concetto di bellezza”(21).

    La luce che invade gli spazi e che con essi sovente si identifica rileva allora la progressiva germinazione di una naturalità sempre altra e sempre metafisica (in accezione, lo ribadiamo, puramente intellettuale). Ma al loro interno, dentro cioè le scansioni della più pura e vivida spazialità, gli oggetti e le cose si addensano e sospendono come in polle, in teche e strambi alambicchi in cui simbolicamente planino i lacerti della casualità, i frammenti — nell’opera ricomposti ed ordinati — della conflagrazione tra assoluto e contingente. Il dramma di Notari — la drammaticità della sua pittura — è in fondo qui. Da artista colto e al tempo stesso attento alla ferita più bruciante della cultura occidentale (quella della perdita, col passare del tempo e degli anni, di una purezza originaria, e la conseguente caduta nella degradazione e nel prosaico: una Dämmerung al tempo stesso ideale e storica), egli distende ansia e angoscia in grovigli dalla simbologia allusiva e luminescente. L’iterarsi dei motivi è il segno di una inquietitudine e di una lacerazione continuamente e insistentemente riproposte.

 

V

 

Con i cicli pittorici Monumento a Ledacigno del 1976, Apparizione dello Spirito, del 1980-81 Giardino proibito del 1983-84, Luce d’amore del 1989-90, Dall'alba al tramonto, del 1998 Con Piero verso la Luce del 2000 e Aprimmo e vedemmo cose nuove del 2002-04, forse anche Romano Notari, come Mallarmé, ha sognato l’opera assoluta, l’Ouvre, e non l’ha realizzata. La sua vera opera è da cercarsi nella congerie di frammenti figurativi, nel susseguirsi dei dipinti, dei fogli disegnati e colorati, degli schizzi e degli appunti, degli inquieti esperimenti tecnici che pare costeggino i fondamenti dell’alchimia(22): la primaria successione solve-coagula, il passaggio dal fisso al volatile e al fisso, il periodo infinitamente ripetuto dell’evaporazione, della condensazione e di nuovo dell’evaporazionie dell’olio e dell’inchiostro, ovvero la trasmutazione aria/acqua/terra, ad opera del nuovo elemento, il fuoco. Poiché ogni tecnica è un modo di tentare un coup de dés, che può anche riuscire ad abolire le hasard, nel pittore umbro essa “è importante per esprimere e ottenere la visualizzazione del proprio pensiero”(23).

    L’elogio della luce di Notari è la poesia interrotta di un segreto continuo, l’accensione intermittente, il lampo di un lumen, di un clarus candor che aiuti a vedere più che non permetta il giorno turbato dal tanto di notte che contiene. Il lampo isola la notte, ma la legge del lampo, come ci ha suggerito Lucrezio, nella sua ripetibilità istantanea, contiene già il segreto di un racconto per immagini. L’artista può vedere collegando le visioni successive in un più vasto, perché più intenso, vedere: appunto intensificato dal sommarsi successivo, replicato, dell’istantaneità. È qui che l’opera della mente occorre nella sua naturale costitutività; essa ricorda la visione come il cielo ricorda il fulmine per il solo fatto che questo lo ha percorso, e quasi precorso: luce mentale allora memorabile nella tenebra, tanto più memorabile perché ricorda quanto I’ha messa in stato di opposizione. Il ricordo notariano è l’inizio dell’opposizione, l’inizio e la prosecuzione della reversibilità che può darsi come tale solo nella zona ultima, compressa e come schiacciata, quasi soffocata, dall’essere.

    Ricordiamo quel che accade ai personaggi di Kafka: vestono correttamente, discutono i loro affari, tengono il loro posto in società, e tuttavia si portano dentro la loro “metamorfosi” occulta, il loro “processo” assurdo e, per quanto si sforzino di tenere ben distinti i due dominii, finisce che conscio ed inconscio entrano in collisione, si influiscono e condizionano a vicenda, ricostruiscono — attraverso imprevisti e complicati canali — quell’unità dell’esistenza che la vita sociale aveva dissociato. Le figure dipinte nell’ultimo decennio da Notari assomigliano per metafora a quei personaggi: la tela non risulta tanto come una tana dai percorsi ingannevoli che si disperdono nel nulla, quanto piuttosto come il diaframma, lo spazio fisico e virtuale di incontro e scontro fra i dati, le suggestioni, gli stimoli proveniente dall’esterno e quelli emotivi ed esistenziali del proprio Es. È dunque il luogo dove avviene la messa in scena, la rappresentazione tattilmente percepibile di questo gioco di connessioni e contrapposizioni, (in una dimensione dinamicamente sospesa, per essere in definitiva proiezione di una coscienza riflessa, mediata dall’uso), vitale ma controllato, degli strumenti pittorici. Eppure, sia nel pittore che nello scrittore, l’Aufdammern, l’alba di una possibile luce, che sembrava profilarsi ai confini del corpo(24), si è mutata in una torbida luca crepuscolare.

 

VI

 

Non fosse la sontuosità ritornante dell’impianto monocromatico, non fosse la distensione della trama di un racconto spazialmente più complicato, si potrebbe — in Amore solare instabile, del 2001 e in Occhio spaziale del 2003 — azzardare qualche analogia con il senso delle coeve proposizioni, in scrittura di puro riscontro di ascolto interiore, del Max Ernst dell’Elogio degli uccelli del ’59: vere animule impegnate a regolare la vita che esce dal suo intrico e cerca la libertà del canto, la follia leggera del volo; Laplop è il superiore di questa migrazione des oiseaux de la liberté (25). Il che può anche offrire indicazioni sulla rotta singolare e sufficientemente solitaria seguita da Notari, nel panorama dell’arte in Europa nella seconda metà del Novecento, che vedevano, come pretese espressioni avanzate, da una parte la pratica oggettuale “poverista” combinarsi con la rastremazione d’immagine “concettuale” e, dall’altra, una riduzione dell’esercizio pittorico ad una riflessione sul plotter painting quale aspetto più radicale di una visione nella quale “la vuota linearità del tempo si spezza”(26).

    La via di Notari è quella di chi abbia sempre piena fiducia della pittura quale coinvolgimento emotivo totale, sul fondamento di un incessante riscontro esistenziale, che riscopre “i diversi rivi dell’evento dell’essere passato in una storia di cui egli pazientemente è andato ricostruendo il senso. Non chiave stilistica dunque di lettura del suo lavoro il ritorno dei fantasmi di Blake, di Fiissli, gli echi di Moreau, ma il senso della verità delle lontane apparizioni restituito nell’organica vitalità di un segno che si fa foglia, nel disporsi della macchia come ombra delle nuvole del suo emozionato presente a comporre l’ascesa dei corpi, i gesti sospesi sull’eco di un canto”(27). L’enigma del cosmo notariano non si rifà al sogno surrealista, al Ypnos che fa transitare fra il mondo diurno e il mondo notturno, fra la coscienza vigile e la coscienza onirica, ma alla verifica, punto per punto, di un’esperienza che, nel suo attuarsi non teme di varcare la soglia del sogno e neppure della morte, poiché sogno e morte sono ancora realtà.

    Si può dire che mentre in Aprimmo e vedemmo del 2002 c’è il sentimento del tempo, in Cariatide instabile del 2003 c’è un vero e proprio tentativo di sentimento dello spazio: esiste anche questo rapporto dialettico tra i due momenti creativi. Ma si precisa intanto che, come questa pittura non arriva senza lottare — persino con se stessa e le proprie tentazioni, pur nella felicità dell’impeto coloristico  — alla propria conquista, così un tal sentimento dello spazio(28), non può darsi senza un preliminare tentativo di abolizione dello stesso termine, di quel sentire in formazione, in quella continua tentazione di annichilimento che, nel Notari della più recente produzione, altro non è che desiderio continuo di sensi originari, di fervori primi, anzi del risvegliarsi incantevole del sentire stesso. Ghenos, dunque, o Thanatos implica questa fusione della creatura con la creazione? Si direbbe che quello che la tiene distante dal precipitare nell’uno o nell’altro dei due estremi della nascita e della morte è proprio quello stato di coscienza costante e immediata che d’altronde mette quegli estremi in un rapporto reciproco altrettanto costante e immediato.

    Così in ultimo lo spazio — e si noti la coincidenza con il pensiero di Husserl e di Heidegger(29) —, in dipinti quali Dittico d’amore del 2004 e Adorazione X del 2002, non sarà più una logica successione di piani, ma sopra-sotto-davanti-dietro-sinistra-destra rispetto a noi che siamo nello spazio; il tempo non sarà più progressivamente uniforme, ma prima — dopo rispetto a noi che siamo nel tempo. E poiché nulla è fermo, ciò che ora è davanti tra poco sarà dietro, ciò che ora è prima sarà dopo: “i confini dall’anima, per quanto lontano tu vada, non li scoprirai, neanche se percorri tutte le vie” (30).Spazio e tempo in Notari sono insieme soggettivi e oggettivi; ecco perchè la serie dei “valori” è infinita e ciascuno di essi non è stabilmente legato all’immagine, ma all’essere dell’immagine in questo o quel punto dello spazio e del tempo, al ricordo del suo essere stato, all’ eventualità del suo prossimo essere in tutt’altre condizioni di spazio e di tempo. L’immagine non è nulla di certo, può esserci stata e non esserci più, può non esserci ancora ed essere per essere, come la parabola matamorfica ed epifanica che Notari ha tracciato per oltre mezzo secolo sulla superficie del cosmo.

 

(1) - Maurice Blanchot, L’infinito intrattenimento, tr. it. di R. Ferrara, Einaudi, Torino, 1977, p. 178.

(2) - Cfr. Giacomo Leopardi, Zibaldone di pensieri, a cura di G. Pacella, Garzanti, Milano, 1991.

(3) - Emmanuel Lévinas, Totalità e infinito, Jaca Book, Milano, 1980, p. 55.

(4) - Martin Heidegger, Tempo ed essere, Guida, Napoli, 1980, p. 82.

(5) - Eraclito, Dell’Origine, tr. a cura di A. Tonelli, Frammenti 83 e 116, Feltrinelli, Milano, 2005, pp. 145 e 191.

(6) - Andrea Emiliani, Romano Notari, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria 2000, Bologna, 1963.

(7) - “Lo scorso autunno, esaminando le opere partecipanti al Premio San Fedele, 1958, premio riservato a giovani artisti, e nel quale ero in giuria, la mia attenzione si fermò su tre lavori di un pittore che non conoscevo. Erano arrivati i quadri da tutte le regioni d’Italia, 700-800, e i più aggiornati si rifacevano a Wols, a Bacon, a Giacometti, a Scanavino, ma quasi tutti con monotonia offrivano un panorama ormai grigio e triste, che sembrava senza speranza. Il giovane Notari, invece, si presentava in maniera diversa: alla prima impressione, non vidi che giallo, questo bel colore solare, la cui materia corposa ricordava i gialli di Van Gogh, quei soli infuocati che bruciano, quei giganteschi girasoli che sono essi stessi dei soli” (Romano Notari, presentazione al catalogo della mostra alla Galleria del Cavallino, Venezia, 1959).

(8) - “In tutta la sua opera infatti Kafka ha concepito una sola prospettiva: la serie infinita dei guardiani della legge che è in fondo la prospettiva geometrica e astorica di chi guarda il mondo dal punto di vista di Archimede. L’opera di Kafka insomma è così complessa perché è straordinariamente semplice e se il lettore di Musil deve riportare la varietà all’unità, il lettore di Kafka deve scomporre l’unità in molteplicità, deve in sostanza storicizzare il suo mondo e può farlo soltanto distruggendo la concretezza della metafora, o, se si vuole, annullandone l’astrazione in un complesso di concrete relazioni storiche” (Giuliano Baioni, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, Milano, 1997, pp. 17-18). È la stessa Gegenstandlichkeit, la stessa origine della simbolicità nelle immagini dipinte da Notari.

(9) - F. Weismann, Wittgenstein und der Weiner Kreis. Aus dem Nachlass, herausgegeben von B. F. N. Guinness, Blackwell, Oxford, 1967; tr. it. Wittgenstein e il Circolo di Vienna. Colloqui annotati da F. Weismann, La Nuova Italia, Firenze, 1975, p. 55.

(10) - Romano Notari. Dipinti dal 1964 al 1990, presentazione al catalogo della mostra antologica al Palazzo dei Capitani del Popolo, Ascoli Piceno, 1990.

(11) - Cfr. Arthur Rimbaud, La lettera del veggente, in Oeuvres/Opere, a cura di I. Margoni, Feltrinelli, Milano, 1978.

(12) - Cfr. Giorgio Agamben, Il linguaggio e la morte, Einaudi, Torino, 1982.

(13) - Francesco Arcangeli, Le apparizioni di Romano Notari, in “Le Arti”, Milano, maggio 1966.

(14) - Romano Notari, Lettera, 1979, pubblicato nel catalogo Notari. Con Piero verso la luce, a cura di V. Sgarbi, Allemandi, Torino, 2000, p. 81.

(15) - Floriano De Santi, L’enigma senza fine di Notari, in “L’Umanità”, Roma, 19 dicembre 1985.

(16) - Nella scaturigine figurativa di Notari il Kòsmos, mentre si allontana dal Cháos, che è la condizione creativa di partenza, l’infigurabilità di partenza (perfino il silenzio può essere nella Koinè notariana caotico), anche, statuendosi come tale, cioè come significante, getta via via la condizione della maschera che il profondo esige, anzi nietzschianamente ama, che è forse l’antifigura, l’unica possibile che il caos ammette come atteggiamento che non tanto lo vince nel suo regno quanto ne sopporta, con la propria fissità, il perpetuo caotico mutare, in un aspetto che è appunto in un immediato contatto col cosmo, il quale precorre il nascere dell’intenzionalità e indica il puro statuirsi — come dice Jacques Derrida  (La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino, 1971) — del “fantasma strutturale”.

(17) - Alberto Savinio, Hermaphrodito, Einaudi, Torino, 1981, p. 46.

(18) - Giuseppe Ungaretti, Nebbia, in Vita di un uomo, Mondadori, Milano, 1970, p. 389.

(19) - N. Luhmann, Gesellschaffsstruktur und Semantik, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1980; tr. it. Struttura della società e semantica, Laterza, Roma-Bari, 1983, p. 175.

(20) - Romano Notari, Edizioni Bora, Bologna, 1979, p. 15.

(21) - Idem.

(22) - “Cinque elementi caratteristici della mia pittura possono chiarire, a me sembra, ulteriormente la rivisitazione di gran parte delle mie opere in chiave, se si vuole, alchemica. Il primo si identifica con l’uovo visto come unità germinale e inteso come momento primordiale, come principio di vita, elemento vitale, sviluppo di processi. Il secondo è il colore, la materia alla quale sempre attingo, una variazione tra il giallo, bianco e arancio (rosso), simboli e purificazioni di vita. Il terzo elemento si identifica con la luce che diventa spirito di vita, forza, annullamento della materia, segreta alchimia che si sostanzia con l’essere in un mondo senza ombre e senza tempo. Il quarto è l’amore: l’unione fisica come completezza biologica, l’antico modello di vita contenente i germi di nuove forme significative, ma anche il tentativo di unificare il corpo con lo spirito liberandosi temporaneamente del proprio “Io”. Il quinto e ultimo elemento è l’uccello, in continua ossessiva metamorfosi, simbolo di luce divina, presenza illuminante e cosmica, strumento di unione tra gli opposti cosìche lo spirito è reso corporeo e il corpo mutano in spirito” (Romano Notari, Testimonianza, in Arte e Alchimia, catalogo della XLII Biennale Internazionale di Venezia, Electa, Venezia, 1986).

(23) - Cesare Zavattini, Colloquio confidenziale tra Cesare Zavattini e Romano Notari, in Notari. Processi caldi, catalogo della mostra antologica, Gràbova vila, Praga, Eleopoldo Notari Editore, Foligno, 2002, p. 15.

(24) - “Un limite, una prigione, un involucro terroso e opaco, questo è il corpo di cui parla Platone nel Fedone inaugurando la filosofia come l’atto sacrificale che avrebbe dovuto mettere a morte il corpo stesso, facendo tacere la fanghiglia barbarica delle passioni che vi sono connesse. Ma l’amore o la sofferenza ci avvertono che la sua presenza è inaggirabile: inesorabile il suo essere lì, da cui nessuna metafisica può sottrarci. Come uscire da esso? Lévinas, in un saggio del 1935 intitolato Dell’evasione, ci ricorda come anche la letteratura contemporanea abbia cercato di evadere dall’imperativo di questa ingombrante presenza. Lévinas non porta esempi, ma noi possiamo ricordare i corpi che si urtano e che si straziano in Kafka; possiamo ricordare l’orgia di D’Annunzio, come il tentativo di sollevarsi oltre il bordo del corpo, e forse di uscire, come egli dice, dalla condanna di essere Gabriele D’Annunzio; possiamo ricordare Bataille e la lacerazione dei corpi, anche se, alla fine, nella Storia dell’occhio, tutto implode nel buio inattraversabile della vagina di Simone. Un limite, dunque: un confine. Ma esistono confini che non siano, come ha detto Melville, porosi e sfrangiati? Esiste un ultimo confine oltre il quale non possiamo andare? E questo confine e il desiderio di evasione sono qualcosa che appartiene soltanto alla nostra modernità?” (Franco Rella, Ai confini del corpo, Feltrinelli, Milano, 2000, p. 9).

(25) - Paul Éluard, Max Ernst, in Capitale de la douleur, Gallimard, Paris, 1926, p. 120.

(26) - Floriano De Santi, La ricerca avventurata nel presente, in Proiezioni 2000. Lo spazio delle arti visive nella civiltà multimediale, catalogo della XIII Quadriennale di Roma, De Luca, Roma, 1999, p. 15.

(27) - Gianfranco Bruno, Romano Notari, tempere, pastelli, 1982-1984, catalogo della mostra alla Galleria Bambaia, Busto Arsizio, 1985.

(28) - Si tratta di un trasporto del cuore entro cui Notari, artista-girovago, cerca il “Paese innocente”; lo spazio è la manifestazione, rispetto alle creature umane e divine che vi si abbondano, dell’infinito, anzi è l’infinito stesso che preme sulla coscienza, che cerca di farsi coscienza di un teatro “del dialogo, della scena, dei costumi e della musica che non si sente” (Sebastiano Grasso, Nelle stanze di Leda, in “Il Corriere della Sera”, Milano, 27 febbraio 1994).

(29) - Cfr. Gianni Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Roma-Bari, 1971.

(30) - Eraclito, Dell’Origine, Frammento 108, ed. cit., p. 181.

 

Floriano De Santi, La metamorfosi cosmica di Romano Notari, presentazione in Notari. Aprimmo e vedemmo cose nuove….Opere 1953-2005, catalogo della mostra personale, Museo d’Arte Moderna Vittoria Colonna, Pescara, 9 luglio-9 agosto 2005.

 

 

Racconta Procopio di Cesarea che i Bizantini, anche quando si trovavano nella bottega del venditore di pane, si mettevano a discutere del Filioque. Vale a dire della questione, che in seguito sarebbe stata sancita dal Concilio di Toledo, se lo Spirito proceda solo dal Padre, oppure dal Padre e dal Figlio. Filioque, appunto. L’osservazione suscita in noi, uomini del ventunesimo secolo, un lieve senso di vertigine. E non tanto perché abbiamo perso l’abitudine di discutere (non diciamo dal panettiere, ma anche in luoghi più idonei quali caffè, cenacoli e ritrovi culturali, che del resto non esistono quasi più), quanto perché, se per caso perveniamo a qualche forma di colloquio, se per grazia o fortuna arriviamo a superare, almeno momentaneamente, quell’affollata solitudine in cui siamo tutti immersi (Montale diceva che “Milano è una città di due milioni di eremiti” e oggi le cose non sono cambiate, se non per il fatto che i milioni sono diventati tre); se, dunque, giungiamo a qualche scambio di idee non superficiale, è improbabile che parliamo delle ragioni dello spirito. Tanto meno di quelle dello Spirito.

    Pensavamo a queste cose, ma ancora più confusamente di quanto siamo riusciti a dirle, osservando le opere di Notari raccolte ora in questa mostra lombarda. Perché il primo insegnamento e, staremmo per dire, la prima emozione che quelle opere comunicano è di trasportarci oltre l’ovvietà del visibile, lontano dalla quotidianità banalmente intesa, per condurci in regioni sconosciute eppure stranamente familiari, in cui la realtà si rivela nella sua dimensione spirituale. Le creature alate (cigni, uccelli e altre specie volatili) che incontriamo nei suoi quadri sono, prima ancora che il soggetto dell’opera, il simbolo di un invito al viaggio: un’esortazione a modificare il nostro sguardo astigmatico, a deporre la raziocinante piattitudine dei soliti ragionamenti e a spostarci nei territori non già della fantasia gratuita o della surrealtà a buon mercato, ma della sostanza ultima, e più vera, delle cose. Quella che i sensi abitualmente ci nascondono, ma che non per questo smette di esistere. Del resto un artista non rappresenta quello che tutti vedono, ma vede quello che nessuno aveva visto.

    Non c’è quadro, disegno, collage di Notari che non comunichi questa intuizione: che ogni cosa non ha un’anima, ma è un’anima, anche se quell’anima è invisibile. Le sue opere, insomma, mettono in pratica (e oggi sono tra le poche a farlo) l’avvertimento di De Chirico: “Bisogna trovare l’occhio in ogni cosa”. Dove per occhio si intende l’aspetto metafisico, il mistero. Intendiamoci, il sentimento di rivelazione, o di disvelamento, che si sprigiona dalla pittura di Notari non ha carattere concettuale, ma, appunto, pittorico. Non ci raggiunge per verba, ma attraverso il linguaggio del colore e dei segni. Ci raggiunge, vogliamo dire, attraverso la biografia dei gialli, che dal trionfo dell’oro si innalzano alle temperature del rosso e si impennano nelle trasparenze del bianco, poi si aggallano nel chiarore dell’albume, si sciolgono negli struggimenti della cera, si intorbidano in un miele più bruno, si purificano in velature più aranciate, prima di inabissarsi nella profondità delle ocre e delle ambre, e infine fondersi e venir meno in un crogiolo di fuochi. Ma ci raggiunge anche attraverso l’intarsio dei segni. Perché il colore non abbandona mai i valori classici della linea e anzi la ricrea, la rimodella, la rigenera. La variazione dei toni cerca la forma, sfocia nella forma, sia pure una forma continuamente cangiante, ambigua, sfuggente, che si esercita in infinite metamorfosi. Si manifesta, allora, una festa mobile di cerchi concentrici, di quadrati inscritti in rettangoli, di circonferenze incastonate in riquadri. Si manifesta, ancora, una genealogia di diagonali, cuori, ellissi, oculi, ventricoli, triangoli lanceolati, ali e becchi, volti e seni, embrioni e cellule, geometrie cosmiche che segnano i confini dell’universo, e pupille e gocce e atomi che racchiudono nel loro perimetro l’ordine dei mondi. Parlare di anima e spirito, dunque, nella pittura di Notari, significa parlare di pittura, non di nude idee: quelle “nude idee” che, diceva Savinio, in arte muoiono di freddo.

    Eppure la sua è una pittura filosofica, che considera le ragioni della spiritualità. Dell’anima, appunto. E forse non è inutile sottoline-are che Notari sta indagando la dimensione metafisica delle cose non da oggi (quando una certa vulgata New Age si è appropriata, banalizzandoli, dei termini del discorso), ma da ieri, vale a dire da circa mezzo secolo. In uno splendido isolamento, se pensiamo che, ancora non molti anni fa, la più ambiziosa enciclopedia di una delle maggiori case editrici italiane aveva chiesto a un noto studioso di redigere la voce “corpo”, ma aveva del tutto ignorato la voce “anima”. Che, infatti, manca. D’altra parte i due concetti non sono in opposizione, e la pittura di Notari lo dimostra coltivando anche una dimensione eloquentemente corporea. “Anima” in latino significa aria, soffio, respiro (non diversamente il greco “thymos” ha la stessa origine di “fumus”). È vero che per Platone l’anima è immateriale, ma per Filolao e Simma è invece l’armonia degli elementi fisici, e per Aristotele è la forma dell’essere vivente, il principio vitale che ne determina la struttura e il movimento.

Così avviene nelle opere di Notari, dove anima e corpo si fondono in un’identica luce, nascono da un’identica fiamma. Le sue tele sono grembi in cui si rende visibile fisicamente e metafisicamente il mistero della vita, dell’amore: un’incarnazione cosmica, che si potrebbe descrivere con le parole con cui Dante evoca quella cristologica: “Nel ventre tuo si raccese l’amore / per lo cui caldo nell’eterna pace / cosìè germinato questo fiore”. Allo stesso modo non esiste gerarchia fra i viventi: tra animali e creature umane, tra uomo e donna, tra forma embrionale e forma compiuta. Tutto è toccato da una stessa energia creatrice, da uno stesso atto ordinatore. Per questo nell’universo di Notari non esiste la morte. La vita si tramuta in altra vita, trapassa in forme sempre nuove di esistenza e di respiro. Come le sue opere non conoscono l’ombra, ma solo un colore più denso e profondo, cosìle sue creature alate e musicali non conoscono la malattia e la fine. Il pungiglione della morte non ha potere sul loro mondo spirituale. Tutto si trasforma, ma l’essere, come non può non essere, cosìnon può interrompersi. E da questa vocazione all’infinito ogni vita attinge una perenne luce: la luce della sua sacralità.

 

Elena Pontiggia, Romano Notari. Le ragioni dell’anima, presentazione in Romano Notari. “Simboli creazionistici”. Opere 2000-2006, catalogo della mostra personale, Bambaia Galleria d’Arte, Busto Arsizio, 5 maggio-30 giugno 2007.

 

 

Visioni. La condizione naturale di Romano Notari è quella del visionario. Il suo è un mondo di apparizioni e di fantasmi, ed è grande la coerenza con cui egli lo fa riemergere, in un flusso continuo di forme e di luce. Molte volte l’ho incrociato negli anni, sempre rispettato, ma sempre insufficientemente riconosciuto. E sempre ho pensato che egli avesse la stessa potenza visionaria, e ancor più abbacinante e abbacinata, di William Blake. Il suo segno stemperato dalla luce lo rivela, e in tralice vediamo le forme di Parmigianino, di Michelangelo, di Correggio.

    Notari non può e non vuole misurarsi con loro. Ma è difficile per lui rinunciare. Il suo orizzonte è popolato di immagini. Dentro di lui è cresciuta una vocazione al sublime, che si purifica nel fuoco. Spesso, a ripensarlo questo strenuo figurativo, che dà corpi anche alle anime, mi è sembrato un pittore astratto, seppure non ci sia un solo quadro in cui egli non rappresenti forme distinte e riconoscibili, trasfigurate nella luce e nel fuoco. Egli appartiene alla rara e aristocratica stirpe dei visionari, che, nel secolo breve che abbiamo attraversato, si sono chiamati surrealisti, ai quali è stata concessa libera cittadinanza in Francia, in Spagna, in Belgio. Con avventurosi percorsi e movimenti, ha dovuto invece vivere in clandestinità in Italia, dove pure avevano dato grandi prove o grandi dimostrazioni di sfrenatezza fantastica De Chirico e Savinio. Da loro discendono Fabrizio Clerici, Gianfranco Usellini e Carlo Guarienti, Leonor Fini, Colombotto Rosso e Leo Morfino, Gustano Foppiani e Gaetano Pompa, Stanislao Lepri e Colette Rosselli. Numerosi ma solitari, ai margini di una storia che si fa presto ideologia e che demonizza realisti e surrealisti. Fra loro, a fianco di Clerici e Guarienti, si pone Notari, umbro e coetaneo di Domenico Gnoli, sottile visionario musicale.

    Le forme che vede si agitano repentinamente e si aggregano come in un caleidoscopio, in un gioco inesausto di specchi, con un dominante viraggio rosso arancio, il più innaturale possibile, anche se così vicino al colore della carne. È certo quello che per Notari è il colore dello spirito, delle anime che si agitano in un mondo parallelo. Come i surrealisti francesi, così Notari prende a modello, e lo decanta da ogni naturalismo, Arcimboldo: le forme si trasformano in nuove forme, si riconoscono e si confondono. Con imperturbabile coerenza Notari traduce in una propria lingua di forme di un Mondo che si rigenera in Max Ernst, e in cui si Candida, dopo Leonora Carrington e Dorothea Tanning, a essere la nuova moglie. Trasfigurando le forme nella luce, Notari evoca un'ascesi mistica nella quale ogni forma trova la sua origine. In questa contemplazione, come ha ben visto Roberto Tassi, “la luce precipitando dalle profondità del ciclo solare, fluttuando sulla Terra, invade e crea ogni fantasma, ogni figura e ogni spazio. Un profondo spirito unitario, afflato che supera il tempo e lo spazio, rendono profondamente unitaria la ricerca di Notari”. Coerente, ossessiva. Religione e mito hanno una sola origine, un solo volto e una sola forma. Le forme si fanno pure essenze e indicano un archetipo che non ha limiti, confini. Notari non è interessato alla varietà del mondo perché conosce l'infinità della coscienza. Ogni mutamento è dentro di noi, e giorno per giorno la pittura lo rivela. Ciò che è dentro di lui si rivela. Non sappiamo quando sia iniziato questo processo e non sappiamo quando finirà. Non ha inizio, non ha fine, perché è come il movimento della nostra vita, che ci cambia lasciandoci uguali. Noi siamo quello che non siamo, e quello che non siamo più. Questa metamorfosi descrive Notari.

 

Vittorio Sgarbi, Il Tempo senza mutamento di Romano Notari, presentazione in Romano Notari. Visioni, catalogo della mostra personale, Palazzo Pianciani, Spoleto, 19 giugno-4 luglio 2010.

 

 

ROMANO NOTARI / ANTOLOGIA CRITICA 1 ►