romano notari

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Lo scorso autunno, esaminando le opere partecipanti al premio San Fedele, 1958, premio riservato a giovani artisti, e nel quale ero in giuria, la mia attenzione si fermò su tre lavori di un pittore che non conoscevo. Erano arrivati i quadri da tutte le regioni d’Italia, 700-800, e i più aggiornati si rifacevano a Wols, a Bacon, a Giacometti, a Scanavino, ma quasi tutti con monotonia offrivano un panorama ormai grigio e triste, che sembrava senza speranza. Il giovane Notari invece, si presentava in maniera diversa: alla prima impressione, non vidi che giallo, questo bel colore solare, la cui materia corposa ricordava i gialli di Van Gogh, quei soli infuocati che bruciano, quei giganteschi girasoli che sono essi stessi come dei soli. In quel brulicare di giallo, vibravano però personaggi misteriosi, che non si scoprivano subito, bisognava afferrarli, assimilarli. Devo dire che mi piacque il mondo del giovane Notari: lo trovavo vivo, personale e anche coraggioso. Chissà perché mi venne in mente “La città del sole”, la città di utopia, quella di Tommaso Campanella. Non c’era, evidentemente, che l’analogia di una parola, di un titolo, ma mi piacque immaginare un mondo popolato di esseri costruiti, immaginati come dei soli. Immensi occhi che ci guardano, personaggi divenuti come un astro, luminosi, paurosi, giocondi e calamitosi. Non voglio fare un discorso critico, lo faranno semmai i veri critici. Voglio soltanto dire che con piacere espongo Notari al “Cavallino” augurando a me e a lui che continui per questa strada, senza lasciarsi fuorviare da mode effimere ed occasionali.

 

Carlo Cardazzo, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria del Cavallino, Venezia, 3-13 febbraio 1959.

 

 

La prima personale di Romano Notari alla galleria del Naviglio di Milano, presentato in una chiara nota critica da Carlo Cardazzo, rivelava già un deciso temperamento pittorico: ossessivo e visionario. C’era una origine figurativa, mossa da espressività elementare: i toni caldi, dal rosso acceso al giallo, diventavano aggressivi con una carica affettiva intensa, che non escludeva l’ansia di segreti abbandoni. Ma l’ossatura, ancora neoplastica, dava al ritmo rigore unitario. Poi Notari ha cercato di eliminare i riferimenti figurativi espressionisti, per ottenere visioni più totali, in spazi proiettati: forse il passaggio è avvenuto in modo brusco; lo schema compositivo, proprio quando sembrava dovesse sommergere nelle visioni paniche, accese — paesaggi visionari di spazi incombenti — appariva più esterno. Notari si accorge, muove i ritmi neoplastici, le visioni diventano più inclini ad effetti surreali, ma sempre con l’accensione di toni caldi, con l’esigenza di comunicare una parola diretta, senza aggettivi o compiacimenti. È questa interna severità, questa carica espressiva, nel bisogno di parola nuda, che attrae in Notari: il quale dà conferma che diversi giovani dell’ultima generazione agiscono, nelle loro inquiete ricerche, con rigore morale e non soltanto estetico, anche se molti come avviene in ogni tempo — seguono soltanto le mode. Sono convinto che, partendo dalla necessità di parola da comunicare, Notari possa imporsi: merita oggi di essere segnalato all’attenzione critica.

 

Guido Ballo, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria del Cavallino, Venezia, 19-28 novembre 1960. 

 

 

La sensibilità pittorica di Notari non proviene da un esercizio manuale, sibbene da un affinamento dei motivi sentimentali cui presta orecchio. Questa leggerezza così soave, questa immissione così delicata nel sondare le proprietà espressive del colore, questo tenue e altrettanto vago disporsi di atmosfere che filtrano un’immagine così incerta come vissuta, sono tutti sintomi di una vocazione bene avviata. Quando ancora sia giusto ispezionare i valori dell’elaborato pittorico, si deve ammettere che le prove di Notari hanno in sé elementi probanti per essere apprezzate e perché, dal riservato impegno entro cui si svolgono, se ne possano trarre auspici per più decisivi conseguimenti. I passaggi fin qui compiuti stanno appunto a confortare la meritoria attenzione e le ripromesse attese di cui il pittore va rimeritato.

 

Umbro Apollonio, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Gritti, Venezia, dal 14 agosto 1962.

 

 

Le tele di Notari qui esposte sono state dipinte tra il ’60 e il ’62. Si tratta, se si eccettuano le poche tempere, essenzialmente di pittura a olio, mentre i due anni di attività dell’artista sono contrassegnati dal susseguirsi di ben tre precisi momenti che indicano l’affermarsi e l’esaurirsi di volta in volta di un ciclo di interessi e di problemi, immediatamente sostituito da un altro. Dunque a chi visiti la mostra verrà immediata una duplice considerazione: quella che se da un lato questa pittura si rinnova per arricchirsi o impoverirsi ma subendo comunque continue modificazioni, dall’altra i mezzi espressivi, più precisamente le tecniche, conservano una loro tradizionalità, continuano cioè a venir impiegate come mezzi senza trasformarsi mai in elementi conduttori della pittura con funzione di guida. Credo che ciò che ci permetta oggi di valutare l’esatta dimensione di un artista sia soprattutto la sua capacità personale di mantenersi in continuo equilibrio tra quelli che sono i due equivalenti poli di trazione: da una parte la suggestione della materia pittorica che nella tecnica può trovare un naturale assetto tanto da autodeterminarsi in una configurazione che abbia il fascino della bellezza, dall’altra la paura dell’autorità del caso che si nasconde nella varietà e molteplicità delle tecniche, per difendersi dal quale spesso l’artista cerca rifugio in una sfera extra artistica affidandosi alla preintenzionalità del disegno nato sul terreno concettuale. Una pittura dovrebbe sempre nascere come pittura, contenere una problematica che sia pittorica e si manifesti nell’atto complesso del dipingere, nell’osservare e nel percepire la realtà e nel ricevere gli stimoli che i mezzi pittorici propongono, indagando in essi e giovandosi delle loro qualità. Ciò che intendo sottolineare è che se nella pittura di Notari non si avverte l’autodeterminazione della tecnica, dall’altra non si subisce neppure l’oppressione di una personalità che ci presenti una problematica personale o essenzialmente sociale: elementi psicologici, etici o politici non si sovrappongono alla pittura facendo del quadro uno strumento di polemica, ma tendono ad integrarsi assorbiti dalla composizione. Ogni pittura di Notari la si può guardare in sé stessa indipendentemente da ciò che è stato fatto prima o sarà fatto dopo, indipendentemente dal suo autore e dalle sue idee: la si può proprio così semplicemente guardare perché essa acquisti sulla parete energia sufficiente a colmare l’attenzione, a tenere cioè impegnati l’occhio e l’intelletto del suo osservatore.

    Dei tre momenti che contrassegnano le opere qui esposte quello più rappresentativo è il momento centrale, tra la fine del ’60 e l’inizio del ’62, in cui appare evidente un forte interesse per la figurazione con un tema insistito che è quello del “processo”, “processo a due”, “processo a tre” “processo” definito ulteriormente con il nome del colore che domina la composizione. Tuttavia alcuni quadri stanno ad indicare le origini di questo impulso figurativo in un momento precedente: due oli del 1960 segnano l’evidente distacco da un interesse astratto-geometrico che avviene per gradi. La tela appare divisa in quattro nette sezioni che determinano mediante l’intensità e la gradazione del colore dei differenti piani prospettici, in ogni singola zona il colore raggiungendo dall’esterno all’interno un graduale schiarimento di tono permette alla luce di filtrare dall’interno all’esterno della materia pittorica raggiungendo nella gamma delle diverse sezioni colorate differenti intensità e sfumature.

    Possiamo vedere come, animate dai loro stessi contrasti quanto dal filtrare della luce, le singole zone cominciano ad acquisire una fisionomia ed una vivacità espressiva che non è propria dello spazio astratto quanto di una concreta realtà fisica. Esse colmeranno con la loro intensità espressiva lo spazio della tela e diverranno volti e immensi occhi di personaggi intenti a far luce uno sull’altro. La forma circolare e spiraliforme, assai elementare, permette a Notari di costruire le sue figure essenzialmente col colore che gioca in tutte le possibili combinazioni dei gialli, dei rossi e degli aranci. Ma il rapido avvicendarsi delle figure nella pittura finisce con l’esasperarne la presenza e farle percepire un poco come oggetti dal vivido impulso che abbiano perduto ogni ragione interiore: è per questo che nelle poche opere del tutto recenti Notari giunge a spezzare il cerchio compatto di quella figuratività, a mostrarci l’oggetto della propria pittura non come presenza ma come ambigua realtà, gioco di luci e di ombre in una trasparenza che tenta le vie di una prospettiva più interiore; e che per infrangere la compatta unità dell’immagine colorata si giova proprio del disegno dal quale aveva tratto origine affidandogli questa volta sul colore una funzione disgregatrice.

 

Federica Di Castro, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Gritti, Venezia, dal 14 agosto 1962.

 

 

Tra le nuove proposte della giovane pittura italiana quella che da alcuni anni Notari persegue è indubbiamente una delle più interessanti e delle più aperte. Si era già segnalato anni or sono per la singolarità dei suoi interessi formali, per la novità delle sue proposizioni espressive. I poli del suo spartito linguistico comprendevano varie esperienze, sia nell’uso di forme, coll’intento di raggiungere una purezza e un rigore formale corrispondenti a una interna severità morale, a una chiarezza conoscitiva assunta deliberatamente dopo il disordine degli informali, sia poi nel ricupero di simboli surreali, per il bisogno di configurare contenuti opposti, associazioni imprevedibili della realtà esistenziale. C’era comunque alle sue origini una evidente ricerca figurativa già nelle sue prime forme a spirale, a masse dilatate, sotto il cui ectoplasma si potevano avvertire presenze fantomatiche, suggerite d’altronde da un colore medianico, allucinante. Il registro cromatico presentava una effusione lirica emanante da una visionarietà espressionistica, da una fantastica e ossessiva esplorazione dello spazio visto come una realtà incombente di presenze aggressive, di corpi liquidi dilaganti, di embrioni trasparenti, di vapori cosmici, in un processo sinestetico di identità e di opposti continui, che accumulava e che relazionava ogni altro contenuto di realtà.

    Di conseguenza questa poetica delle analogie e delle associazioni corrispondeva a un interiore approfondimento metaforico, che aveva riscontro nella sua pittura nei ritmi organici del suo spazio-colore, in una plasticità, era espansa, ora contratta di forme, in una fluidità sonora tra le varie zone di colore, tra densità e trasparenza, tra opposti emotivi di una intensità energetica sorprendente. Notari voleva soprattutto agire entro la forma, rivelare l’essere interno, ritrovare l’originarietà di quelle connessioni formali, e così arrivava a presentarci visioni di una vitalità cosmica, ma anche presenze insorgenti non decifrabili eppure prepotentemente allusive, anche emblemi di una sospensione esterna, di una rarefazione ultima. La serie di queste opere è di una lucidità lirica notevole, di una contemplativa solenne e visionaria, comunque suggestivamente poetica. Lentamente la disposizione di quelle sagome, di quelle sfere veniva ad assorbire ogni margine della superficie, a liberarsi e a procedere oltre quei limiti, penetrando nel nostro spazio, estendendosi come una luce nel nostro ambiente come una atmosfera irreale, divenendo infine protagonista sensibile, tragica o gioiosa, di ogni avventura della coscienza espressiva.

    Così il colore assumeva tramite i nuovi impulsi una dilatazione smisurata, una profondità e una trasparenza, un grado pertanto di intensità e di tensione che ne permettevano l’estensione dimensionale, ma di una dimensionalità più attiva e più inerente la nostra esistenza. Processo di mutazione degli stessi termini formali quindi in una rispondenza operativa del valori vita-morte, gioia-dolore, ma ristrutturati al di là di un contingentismo emozionale, piuttosto resi nella loro effettiva portata fenomenologia ed esistenziale.  Evidente poi il significato simbolico rosso-arancio-giallo di quei globi luminescenti (l’idea del sole-fuoco, ma anche di nubi radioattive, di esseri allo stato ancora larvale o elementale) di quella sostanza cosmica generatrice di potere inafferrabili e di indefinibili metamorfosi. Queste forre segrete si identificavano nella sua pittura con la luce, con i movimenti della luce, da cui emergeranno altre presenze altre visioni intenzionate, immagini come azioni di una accorata partecipazione alla realtà nel suo farsi. Le sue prime visioni infatti orbitano tra l’elegiaco e l’incubo, tra la soavità di accordi cromatici di trasparenze purificatrici e l’ossessione di un imminente inevitabile dramma, i cui sintomi allarmanti angosciosi si intravedono, provengono dal nostro spazio, da questo esistere su cui una minaccia smisurata prende la fisionomia ambigua dei fantasmi del nostro inconscio e della nostra fantasia. Da queste premesse nasce in lui il bisogno di una pittura come avvenimento, entro il quale è possibile seguirne l’intero processo, la relazionalità oggettiva su cui si struttura, nel suo organismo pittorico, divenuto più complesso, un alone concreto, reale. L’interesse preminente per Notari è portato però verso due termini più essenziali del suo dibattito, della sua operazione espressiva: il colore-materia, inteso come proiezione ed esaltazione vitalistica nello spazio e una forma-processo, data da una figurazione espressa nel suo momento di crescita, di evidenza fisica, legate comunque al brulicare stesso del colore, alla sua animazione organica. Appaiano allora esseri enigmatici, abnormi, appena delineati e tuttavia conturbanti, misteriosi, come evocati dapprima da quell’eccesso di splendore, richiamati poi da una veglia allucinante, da una lucida inquietudine interiore. Da un processo di fascinazione delle cose e delle presenze oscure che abitano negli spazi notturni della coscienza egli è giunto a scoprire questi idoli barbarici, queste deità solari, interpretando le figure ambigue di mondi ancora inesplorati, le loro relazioni e le loro vicende.

    Successivamente queste immagini si identificano con le nostre azioni, con le nostre vicende. Già nel ’60 con “Il Bacio” e con “Processo a due”, quelle presenze acquistano un rilievo particolare, anche se il repertorio coloristico rimane lo stesso, ugualmente ossessivo e simbolico. Indubbia l’origine vangoghiana di questo colore, ma tradotta non in funzione espressionistica, piuttosto riferibile a certe fosforescenze luministiche del pittori italiani primitivi, quando ancora non si voglia riportarlo al senso archetipo delle visioni surreali. Queste figurazioni comunque volevano esprimere l’ambigua realtà dell’esistenza, e divenire perciò trama di un racconto umano, strutture di una azione che è ugualmente partecipata quale memoria e storia della vita. Il senso della ambiguità, altra componente del relativismo contemporaneo, è più evidente nelle opere successive. Dal “Processo a tre” del ’61, ali'"Omaggio a-te-A” di quest’anno questa tematica si snoda in due direttrici problematiche fondamentali, che si alternano nella dinamica già promossa da queste associazioni vita-morte, gioia-dolore, ma oggettivata ora una più vasta disponibilità umana, in un tempo interiore, denso di contrazioni, di fatti, di proiezioni continue nel divenire della realtà. Riassumendo lo sviluppo di queste direttrici si potrà constatare come il loro intervento abbia svolto un ruolo decisivo, come abbiano approfondito lo stesso discorso simbolico, in un allargamento di interessi tra esperienza interiore e visione del mondo. I valori cromatici restano ancora decisamente caratterizzati dal momento visionario dell’immaginazione, sollecitando una idea cosmogonica, ma anche una attiva e organica concentrazione di queste presenze altrimenti partecipate nell’attuale problematica sul reale.

    Si assiste nel contempo a una opposizione di significati, in una vicenda di stadi formali progressivamente determinati, entro cui quel colore panico, orgiastico, e quella purezza inattingibile del suo valore luminoso, come segno di una solarità quale base genetica di questa estesa morfologia spaziale, si confondono, provocando altre presenze emblematiche, che nelle opere più recenti procedono a una più complessa descrizione di questa situazione fantastica. D’altro canto la stessa concezione della spazio si mutua entro questi nuovi momenti, entro questi nessi di una sostanza iconografica-mitica, giungendo Notari in queste opere a “oggettivare” lo spazio di quella situazione della coscienza umana, a strutturare l’immagine-totem nei ritmi relazionali, temporali di un avvenimento reale, di una vissuta esperienza. Infatti quelle visioni suscitate da una profonda inquietudine metafisica, da una paura kierkegaardiana, si sono concretizzate in un dramma fisico e storico, e tutto il ciclo del ’62 appartiene a questa testimonianza straziante.

    Il ciclo “Omaggio a-te-A”, rileva una più sconvolta “imagerie”, e la stessa tematica segna appunto l’impossibilità della propria definizione simbolica entro queste forme si muove, tangibile e viva, una presenza, più ricca di elementi grafici, evocante una storia. Il pittore rivive in quello spazio, prima popolato da forme incandescenti, da orbite-personaggi, da occhi misteriosi e smisurati che spiavano dall’alto di un informe magmatico una sotterranea incandescenza (teste mostruose o angelici emblemi reciprocamente riflessi nella fosforescenza di una loro sostanza calda e ambigua, sensuosa e spietata), un enigma incomprensibile, dove ogni traccia, ogni presenza fluttuante di quella drammatica esistenzialità, porta con sé lo sgomento di una verità impietosa. Nel momento in cui si vuole riproporre una nuova figurazione questa realtà espressiva di Notari dimostra l’evidenza morfologica di un equilibrio sorprendente tra l’estatico e il divenire, tra il fantastico e la realtà. Egli vuole darci la somma delle relazioni, delle vicende di cui è intessuta la nostra esistenza, di cui è sostanziata la stessa realtà, nelle dimensioni che sono ancora possibili per le verità umane.

 

Toni Toniato, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Gritti, Venezia, dal 14 agosto 1962.

 

 

Anche se può essere inutile cercare in parole un ritratto, una linea più o meno obbligante del lavoro Notari si dovrebbe subito rilevare la sicurezza con la quale egli perviene alla costituzione di una tematica omogenea, qualcosa che egli chiama — con allusione strettamente figurativa — il “gufo”, ma che in realtà null’altro ci sembra che il risultato allusivo di questo ruotare circolare occhieggiare di globi luminosi, di queste pupille invadenti, o come mai le volete chiamare, attorno alle quali si condensa luce rifratta, lenta ma insieme costante come palpito regolare e continuo.

    Mistero soffice e alonante di queste iridi che proprio il rapido calare d’una palpebra potrebbero sempre cancellare. In questa tensione costantemente al limite Notari si rivela umbro almeno quanto Burri, all’opera del quale egli deve aver guardato assai più di quanto non lascino intravedere, ad occhi estranei, i suoi lavori. C’è evidentemente un attimo di fissità quasi ferma in questi aloni attorniati dal silenzio più vastamente naturale e direi paesistico; qualcosa che l’assetto implacabile e jacoponico di Burri ha coagulato nel silenzio della carne straziata, e che invece Notari, attraverso le razioni apparentemente immote ma invece fitte e palpitanti di questi globi di luce, conduce, “ore rotundo”, ad uno spasmo ottico. Una favola grandiosa di voli notturni, di palpiti colti su limite di boschi, di attoniti silenzi; qualcosa che il primo Cassola dei racconti giovanili potrebbe ricordare, con quella sua fermezza cortese ed estatica; oppure la ruvida ed appassionata memoria di Rigoni Stern, se subito quest’ultimo non ci trascinasse nella favola più immaginosa.

    Un attimo di precisazione meritano, ci sembra, anche i disegni e le tempere, ricchi di più aperta sperimentazione — com’è giusto — e nei quali è dato cogliere più scopertamente le indicazioni culturali; non ultima una suggestione di ritmo continuo, filante ed ingenuo al tempo, che forse è un ricordo dai disegni stupendi di Gorky all’ultima Biennale veneziana. E poi è la materia che incanta, quel pagliettare dorato e crepitante che spezza la linea e si dirama in una fantastica incertezza, in una apparente ambiguità di contorni che la luce cancella e allontana dall’occhio, come oggetti troppo a lungo fissati e che si perdano in una sfocatura lontana e bruciante.

 

Andrea Emiliani, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria 2000, Bologna, 5-18 gennaio 1963.

 

 

Romano Notari è un giovane pittore ma noto al punto da giustificare gli interessi non anonimi verso la sua opera di critici attenti come Apollonio, Arcangeli, Ballo, oppure quello appassionato del povero Cardazzo, che nutriva per il pittore umbro una particolare predilezione, tanto da dedicargli un suo rarissimo (forse unico) e premuroso intervento critico nella presentazione della mostra personale al Naviglio nel 1959. Notari non persegue inediti e suggestioni media pittorici immettendo materiali eterocliti per raggiungere particolari effetti aurorali. Anche per questo il pittore sfugge ad una catalogazione entro i consueti schemi storici; né di lui si potrà dire che rappresenti un epigono di un maestro di ieri e di oggi (Notari è solo con il suo lavoro, le sue esperienze, con la sua drammatica volontà di poter credere ancora nell’uomo e nella sua sopravvivenza); e soprattutto alla sua missione, talché si potrebbe per lui parafrasare un detto di Flaubert: “Je suis un homme pinceau et coloreur, je suis par eux, à cause d’eux, par rapport à eux” .

    Egli popola il suo universo di immagini allusive e vagamente emblematiche, con forme talvolta allarmanti (di una magicità più oggettiva ed iconica però che non fantastica) non contaminate comunque da alcun desiderio di rappresentazione naturalistica o realistica (con le relative dilatazioni morali e formali proprio dell’espressionismo) o anche soltanto metafisica. L’universo di Notari diviene una formulazione dello spirito più che una proiezione geometrica pluridimensionale, dove il pittore situa le immagini lucide e tese, affioranti la precise segnalazioni plastiche e che forse sono soltanto la riflessione della sua e della nostra coscienza nella tela. Notari nel rinvenire quelle figure circondate da un limite di ambiguità e di contraddittorietà metaforica (propria anche di certe non remote zone dell’espressionismo e surrealismo) le assume a simbolo, e in questa assunzione simbolica perviene alla formulazione di una poetica, in cui i margini di casualità e di imprevisto sono ridotti al minimo e pertanto pressoché controllabili in tutti i suoi processi mentali, dal principio alla fine.

    I suoi mostri-simbolo sono ormai l’elemento biologico della propria esistenza, un prodotto talmente vissuto e istituzionalizzato, da rappresentare un gesto fondamentale (Grund-Gestern) organizzato a livello coscienziale e non dissimile dal movimento istintivo del procedimento dell’action painting ma di cui, proprio per questa nuova semantica a livello di primordialità, non è difficile scoprire quelle componenti anche segniche (in particolar modo nella tempera e nel disegno) specialmente per la facoltà prodigiosa di provocazione intellettuale che un gesto in segno possono avere nella sua coscienza. In un certo senso si può dire che Notari segue lo stesso processo caro anche a Leopardi, il quale dopo aver risolto un pezzo lo rileggeva, ripetendolo ad alta voce, sino a ché una parola una riflessione, una pausa, non lo sollecitava per il verso successivo, e così via. In Notari si assiste al medesimo procedimento. Egli tende un agguato al colore ed anche al segno, al fine di ricavare una sollecitazione emotiva intellettuale da tutte le cariche intrinseche ed estrinseche e di provocare quegli incontri, quelle rotture o dissonanze morali che frustrano l’intelligenza del fruitore quotidianamente immerso nella jungla del luogo comune, del supermarket, del self-service, della segnaletica, insomma nella jungla della ripetizione condizionata, di gesti, movimenti, pensieri, parole.

    Ciò che il neodadà registra, Notari invece denuncia e combatte. La sua è anche una poetica di rottura, di opposizione, di rivolta. Rivolta alla sua reazione ideologica, al dogma, al conformismo, ai mass media che tentano di fagocitare la nostra coscienza e i nostri sensi. Per questo Romano Notari vuol essere prima di tutto una presenza in un mondo dove predomina l’assenza, il rifiuto della storia e la sospensione di ogni giudizio (anche se con il motivo ossessivamente riproposto e magari intercalato o alternato, Notari vuol dirci che ormai non possiamo più scegliere i nostri problemi, poiché ci scelgono essi, ad uno ad uno, inesorabilmente, e la nostra funzione — e la nostra rivolta — è ora solo quella di accettare di essere scelti). In un epoca imprevedibile e inedita come l’attuale, dove la rivelazione ideologica e morale, (quindi estetica) si annida nelle pieghe del progressismo più illuminato, il compito dell’artista è quello di rendersi più che mai vigile, sempre più attento e sollecito. Solo in questo modo potrà scongiurare l’atrofia del nostro esser vivi e soprattutto si potrà scongiurare, almeno per ora, la morte e la fuga dell’umano che è ancora nell’uomo. O comunque il diritto e il dovere, in caso di morte, di sapersi morto.

 

Giancarlo Politi, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Ferrari, Verona, dal 22 ottobre 1964.

 

 

Erano poco più che “apparizioni”, come ricorda Franco Russoli, “volti, grembi, feti, gufi; un repertorio di cultura simbolista ma non di ricalco manieristico o decadente, anzi riproposto e reinventato con assoluta sorgività. Un mondo che cresce e si sviluppa nella profonda materia dell’essere...”. Oggi pare che Notari abbia dato più ampio respiro ai suoi “personaggi”, fioriti fra l’esperienza del quotidiano e l’emergere a vita prepotente di immagini da più profondi strati di coscienza. Fra i due momenti agisce quel “prisma della meraviglia” di cui fa cenno Russoli, ma anche una volontà di non lasciare più l’opera aperta, di dare un senso ed una direzione, ad un processo che rimane in atto. Si spiegano così le apparizioni. Non più figure coinvolte come in un vorticoso andare che tiene il ritmo del circolo; le linee in prevalenza curve, i moti ascendenti e discendenti, l’indefinito delle masse volumetriche. Quella di Notari è una inquietudine tuttaltro che repressa, elevata anzi a canone dell’operare, come gridata: ma anche nei momenti in cui il processo è meno definito e la composizione tende a sfaldarsi in bagliori incontenuti, si avverte sempre una misura di fondo, un controllo attento di ogni gesto, di ogni linea, di ogni tono, un controllo che permette all’artista di non lasciarsi travolgere dalle suggestioni del meraviglioso e del fantastico.

 

Francesco Solmi, Romano Notari, in “L’Unità”, Bologna, 23 dicembre 1964.

 

 

Nel 1959, presentando Notari alla Galleria del Cavallino, Carlo Cardazzo aveva scritto: “Immensi occhi che ci guardano personaggi divenuti come un astro, luminosi e paurosi, giocondi e calamitosi”. E ricordo l’emozione che provai, una sera in casa di Romeo Toninelli, davanti a molti quadri di Notari, circondato da quegli occhi, da quei semi gialli-arancio, brulicanti di vita ossessiva: incontravo un pittore dotato, che esprimeva con limpida forza un mondo poetico sincero e originale. Quello che Arcangeli seppe poi indicare liricamente: “qui è lo stupore, il candido smarrimento, la dolce forse cosciente ossessione d’essere al mondo, in questo mondo dove sono così terribilite le minacce della guerra, così così insidiose quelle della pace”. Era una iterata e variata distesa di luci calde, di toni modulati con finezza squisita, che non miravano a placarsi nell’ordine formale dell’armonia astratta, ma, anzi, sembravano riportare la struttura astratta alle sue origini simboliche, evocative. Nell’intreccio e nella sovrapposizione di aloni luminosi di diversa intensità, entro le gradazioni di un unico colore, Notari trasfigurava le apparizioni che la sua sensibilità e il suo sentimento, inquieti, continuamente facevano nascere. Su un tema formale cromatico assunto a medium rappresentativo di base, sviluppava quasi abbandonandosi allo scorrere della fantasia, gli emblemi e i simboli di una condizione psicologica e di una storia intimistica. E si è visto infatti, nel procedere della sua opera, come quei nuclei, quei germi organici di materia luminosa, prendessero forme larvali, si facessero immagini fuse nell’ectoplasma fosforescente di una evocazione misterica.

     Volti, grembi, feti, gufi; un repertorio di cultura simbolista, ma non di ricalco manieristico o decadente, anzi riproposto reinventato con assoluta sorgività, evidentemente connaturato al temperamento e all’immaginazione dell’artista. Un mondo di vita che cresce e si sviluppa nella profonda materia dell’essere, più che nei moti della fantasia letteraria, o nella combinazione onirica. Le figure di Notari non sembrano tanto lette nelle macchie solari, quanto nel tuorlo di un uovo fecondato. “Processi” di crescita, di relazioni reali e insieme assurde tra gli oggetti e le cose viste, e la loro proiezione nella coscienza, attraverso il prisma del sentimento e della meraviglia. Lo testimoniano bene i bellissimi disegni dove tale rapporto e sviluppo fantastico emotivo del “vero” è addirittura chiarito nella stessa composizione delle scene, dall’appunto direi realistico del motivo, dalla sua dilatazione e trasfigurazione simbolica. Notari dipinge e disegna i segreti procedimenti della presa di coscienza del mondo soggettivo, i trasalimenti del senso e del cuore — insegue le fugaci illuminazioni che rivelano il significato extravagante degli incontri quotidiani. E lo fa con freschezza e coerenza, arricchendo sempre più il suo linguaggio sottilmente complesso, restando fedele ai termini della pittura. alle sue naturali qualità.

 

Franco Russoli, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Il Cancello, Bologna, dal 24 dicembre 1964.

 

 

Non sono avvezzo al biglietto di presentazione per la mostra d’un artista, perché sento, per solito, il dovere di partecipare a quella sua vicenda con tutto l’impegno di cui sono capace: da una conoscenza diretta delle opere abbastanza accurata, da una cognizione abbastanza precisa di quello che è il punto della sua fortuna critica, alla società dei dipinti, alI “‘accrochage”, se mi è possibile, sulle pareti della galleria espositrice. Se vengo meno a questa abitudine pressoché costante, ciò dipende, oltre che da ragioni contingenti, anche dalla stima fondata e tranquilla che nutro per il lavoro di Romano Notari. Naturalmente, nella bella mostra tenuta al Cancello di Bologna dall’amico Ciangottini, ho potuto conoscere quest’ultima fase della sua pittura, altrimenti navigherei nel vuoto, o quasi; e non dico questo perché io tema, da Notari, quei colpi di timone improvvisi, non sempre nati da indipendenza mentale, e spesso replicati in un breve giro di tempo, che buttano entro di me — a torto o a ragione — sospetto sull’attività di tanti, giovani o meno giovani; quanto perché, pur nell’unità fondamentale ed emozionante del suo timbro, anche Notari non può non avere le sue trasmutazioni, e una sua storia.

    Infatti: alla sua fase più candidamente e impensatamente autoctona, quella delle sue “apparizioni”, semplici, intere, diafane, fosforiche, eppur concrete di dolce ma inquietante umanità, era seguito un’altro gruppo d’opere dove lo strumento del disegno, affinato, delicatamente crudele in ingranaggi meccanico-organici, aveva definito una condizione diversa, un’altra e più complessa oggettivazione dell’immagine. Questa fase espressa, anche in singolari disegni, poteva lasciar credere a una sottile (Notari non ha dentro di sé la proporzione del clamore, e forse non l’avrà mai) ma importante successione (o deviazione) della sua qualità ispirativa; e tuttavia, osservando più attentamente, il giro delle ruote dentate che muoveva il suo ritmo silente in quelle figurazioni, anziché ferire, pur sempre — all’interferir delle forme — sommessamente fioriva. Anche entro le giunture del suo disegno viveva insomma una disposizione di spirito assai diversa da quella delle poetiche più comunemente correnti fra i giovani d’oggi; e, se di disposizione lirica si tratta, occorrerà pure usare la parola, oggi non troppo amata. In tempi, infatti, in cui d’altro non si discute che di “scelte operative”, di “universale oggettualità”, “reificazione dei segni”, di “cosificazione dei fantasmi”, e il tutto e inserito entro le poetiche della massificazione e del consumo; la qualità lirica richiama a dimensioni di tempo intuito, d’immagine contemplata, di accensione del cuore, che pare si vogliano eliminare dalla vita.

    Appunto per questo la presenza di Notari, il suo tempo rallentato e trasmissibile, là dove il tempo si dice consumato irrevocabilmente attimo per attimo (e non con profondità, con disperazione ma con presenza e distrazione) vale tanto di più. Appunto per questo mi pare importante che un tale tempo — lirico, antiattivistico — egli l’abbia recuperato, nelle sue ultime opere, più decisamente. L’analisi dell’immagine naturale-visionaria che l’aveva portato qualche tempo fa a una concezione narrativo-surreale, ora si riassorbe, s’è riassorbita in una quantità di tempo lungo e sospeso entro il limbo del cuore; la cui metafora è quella splendida variazione di rosa, carnicina e sommessa, diafana e densa, di giallo scaldato in arancio, d’arancione smorente in giallo, che è l’indimenticabile qualità cromatica di Notari. Un’ora calda, come avverte un suo titolo, passa lenta entro le sue tele; e tuttavia questo suo tempo lungo, proprio perché non segue la descrizione oggettiva dell’evento, mi sembra — benché accada come in un sogno — più carico di futuro delle attuali “cosificazioni”.

    Anche perché non è facile capire come una realtà, così complessa nelle sue sempre più indagate latebre com’è quella odierna, possa simboleggiarsi tutta in un così materializzato “carpe diem”, in una così grave oggettività quale si viene ora proponendo; e come possano venire scartati dalla vita di oggi idee come quelle di “natura” o di “cuore”, o di “sentimento”, che ovviamente inamovibili non aspettano altro che ne sia scoperta una dimensione del nostro secolo. A questa scoperta mi pare lavori Notari; che, operando nel presente, accumula un passato molto lontano e un futuro chissà quando a venire: un futuro singolarmente “marziano”, ma ancora umanissimo dove su noi piove un’invasione di sguardi, di presenze ancora ignote ma germinanti. Ed è naturale che, poiché del futuro non si può avere nozione reale, il tempo sospeso dalla sua pittura finisca con lo scandirsi su una dimensione antica, ma senza nulla d’arcaico. Passando la sua immagine naturale in arabesco del cuore, nulla più me la accosta che il ricordo dell’estatico rapimento nato in me nell’ascoltare, tanti anni fa la musica remota della variazione sulla parola “Virgo”, del Maître Perrotin; o lo stupore che dalla penombra della chiesa gotica, ci coglie quando, contro l’immobile aurora di finestroni, brulica lenta e infinita la grande rosa.

 

Francesco Arcangeli, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Odyssia, Roma, 20 febbraio-6 marzo 1965.

 

 

Fin dalla prima mostra al Naviglio, presentata nel ’59, da una bella pagina critica di Carlo Cardazzo, che era sempre generoso coi giovani più vivi, Notari si è imposto per la forte carica interiore, in immagini ossessive e visionarie. C’era, in quella prima mostra, una origine figurativa, mossa da espressività elementare: i toni caldi, dal rosso acceso al giallo, diventavano aggressivi, rivelando una partecipazione affettiva intensa, che non escludeva l’ansia di segreti abbandoni. Ma l’ossatura, ancora d’influsso neoplastico, dava al ritmo un rigore unitario. Nelle esperienze degli anni successivi questa carica interiore si risolveva, dapprima, in visioni più totali, dove lo spazio a due dimensioni evocava paesaggi incombenti, anche quando tutto sembrava non figurativo: la tensione, allucinata e calda, diventava, nelle opere migliori, “presenza”. Ma dopo, Notari, muoveva di più ritmi, facendo orientare le visioni verso effetti surreali, sempre con l’accensione di toni caldi: nascevano così personaggi dalle occhiaie ingrandite, quasi nuovo pretesto di stato d’animo. In realtà un sottile dualismo ha sempre agitato l’iconografia del giovane pittore: da un lato, il bisogno di un assoluto panico, in movimento esistenziale, colto alle origini dei fermenti (da qui la tematica ricorrente di forme ovoidali che si aprono con creature quasi informi), lo porta verso il superamento del particolare relativo; d’altra parte, l’esigenza di concretezza lo fa tendere alla creazione di personaggi, immersi e deformati in atmosfere che si espandono. Il dualismo però è risolto nella larghezza luminosa del colore e della grafia quasi automatica (tanto è corsiva, immediata) nel divenire dell’immagine stessa.

    Ecco dunque la fase delle tempere e dei disegni, estrosi, allucinati, in cui il respiro panico, la vitalità del ritmo in espansione, senza escludere personaggi e accenti narrativi, danno all’immagine valore di presenza attiva e vera. Da qualche anno, dopo tale esperienza, Notari ha sviluppato questa sua parola, risolvendola in chiave che può sembrare anche viscerale, nei riferimenti surrealisti: ma non inganni questa apparenza viscerale. Nelle sue opere non c’è mai il compiacimento dell’informe viscido: le immagini nascono dalle premesse cui ho accennato sopra, dall’esigenza di cogliere la vita nel suo momento di nascita: i personaggi sono immersi dunque, e si intrecciano, in atmosfere primordiali; sembrano muoversi, agitarsi, quasi nel subconscio: il sogno ossessivo delle origini trova nuovi sviluppi. Il colore intanto, anche a olio, si è decantato di più, purificandosi nei toni; i ritmi si richiamano sottili, suggerendo i moti più vari, e le atmosfere, sempre paniche, rivelano la intensa forza affettiva. Perché, in Notari, è questa la costante che ne rende coerente il discorso, l’evoluzione del linguaggio: il bisogno, sempre, di comunicare aggressivo una parola “vissuta” nell’interiorità, a lungo, che riveli il destino dell’uomo, dalla nascita alla caduta, in uno spazio che è già tempo, divenire continuo.

 

Guido Ballo, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Naviglio 2. Galleria d’Arte, Milano, 1-19 dicembre 1965.  

 

 

Sembra quasi incredibile che questo ancora giovanissimo artista, in un momento in cui le allettanti fortune dei mezzi tecnologici della comunicazione insidiano lo stesso ambito espressivo dell’immaginismo mitografìco, compromettendone in particolare l’integrità visionaria, resti invece coerentemente legato a un proprio originario nucleo formale e tematico, a suo sviluppo inconfondibile; sappia cioè dare un volto a quel groviglio di fatti visivi ed emotivi, reali e fantastici che costituiscono la trama malgrado tutto ancora insurrogabile di un racconto pittorico che ambisca a possedere un senso plausibile, una reale e necessaria efficacia. Essere dentro il cuore dell’immagine ha significato per Romano Notari l’affermazione innanzi tutto piena e spontanea di una oggettività introspettiva, da cui ha ricavato le luminose metafore di questo suo lucido lirismo figurativo, la misura di una durata autentica della visione che è conquista prima ed irrefutabile di una concreta esperienza artistica.

    Non si è trattato però per lui di chiudersi pur con risentita esistenzialità in un mondo privato, di esaltare, pur non gelosamente, una dimensione interiore, profonda, ma incontaminata, sulla corruttibile e spesso arbitraria superficie delle cose, sulla distorta prospettiva della realtà quotidiana, bensì trovarvi nella necessità di una più vera partecipazione uno sviluppo naturale, una maturazione effettiva che ha sostanziato infatti, in questi ultimi anni, la sua singolare ricerca pittorica, ha illuminato le sue vitali immagini. Egli sa che il pittore oggi non è soltanto un costruttore di metafore pur splendide e rivelatrici, sensibile, come si scopre, all’ipotesi che l’immagine, una volta esperita e trasmessa, appartiene ancora alla realtà della propria esistenza conoscitiva, del proprio mondo; anzi in tale oggettività, resa acuta da una riflessa identificazione interiore, essa comunica appunto sulla rete di quelle circostanze, storiche ed umane, una visione integrale, almeno nella prospettiva del proprio esistere, dei vari livelli e momenti della coscienza. La sua coerenza allora non ci apparirà come una fedeltà puramente sentimentale ai motivi che l’hanno ispirata, bensì ci potrà garantire invece sulla qualità del suo approfondimento interiore, dell’allargamento verso cui tendono le stesse possibilità espressive della sua vocazione, la misura della sua disposizione umana.

    Si è potuto così trovare ad anticipare davvero una proposta di figurazione seguendola crescere in una reale necessità spirituale. C’era comunque una esplicita esigenza figurativa già nelle sue prime prove, in quelle sue forme spirali, generate da una massa cromatica espansa, sotto la cui soffusa pellicola si poteva cogliere una tensione spasmodica di presenze segrete, ancora fantomatiche, provenienti appunto dalla materia effusiva di quella gestazione luminosa, da un colore, più spesso una gamma di gialli e di rossi, che si rivestiva di una atmosfera medianica e allucinante. Il colore, in quella splendida trasmutazione di registro, filtrava la qualità emozionale, l’incantesimo o meglio la tensione affettiva di una interiorità inquieta, assumendo tonalità indimenticabili, aggressive e gioiose, sciogliendosi in dolcezze conturbanti.

    Questa fase culminerà nelle ricerche del ’59 con una serie di dipinti straordinari dai colori in chiave di una formulazione magica fascinatoria, e di cui, presentando per la prima volta il pittore al pubblico, in una mostra personale alla Galleria del Cavallino, Carlo Cardazzo giustamente notava: «In quel brulicare di giallo, vibrano però dei personaggi misteriosi, che non si scoprivano subito, bisognava afferarli, assimilarli»... Immensi occhi che ci guardano, personaggi divenuti come un astro, luminosi e paurosi, giocondi e calamitosi». Quel singolare partito cromatico, registrato su ripetute dominanti, svariando dal rosso sulfureo e allucinante al rosa silente e diafano, dal giallo orgiastico e abbacinante all’arancio prezioso e delicato, alle rifrazioni cangianti e protratte del rosso, del giallo, si accendeva di una effusione lirica emanante da una tesa visionarietà, da una fantastica e quasi ossessiva esplorazione di uno spazio intuito come un paesaggio incombente, pregno di forze insidiose, di corpi liquidi dilaganti, di furtivi occhieggiamenti: tutto un ruotare di astri, un irradiarsi vibrare di sguardi, di apparizioni, di organismi occulti, fragili e invadenti, torbidi e ammonitori.

    Spazio, certo, dell’anima, che però si apre su uno spettacolo di turbamenti del cuore e della fantasia, per concretizzare più efficacemente l’immagine-simbolo che dentro quella spaesante realtà riflette appunto una sofferta coscienza della negazione esistenziale che si patisce quotidianamente, dell’attrito che essa subisce dagli eventi che ci circondano e ci condizionano. Più tardi verso il ’62-’63, egli verrà a situare, nel limbo evocativo di quelle corrispondenze e opposizioni, tra immagini della memoria e della realtà, il processo metamorfico di queste organiche presenze, di queste emblematiche figure: uccelli-vittime, occhiaie-grembi in una prospettiva di visionarismo penetrante che potrà infatti svolgersi in un ordito narrativo-surreale, ma anche su intense trame allusive nella suggestione, allora, di un simbolo magico-vitale, di un processo di fecondazione e di crescita o nella registrazione profonda dei piani regressi della coscienza, svelati nella loro estrema ed allarmante risonanza onirica. Notari tende dunque a caricare le sue forme di un significato simbolico, cercando di rendere reversibile il rapporto tra significato e forma. La serie dei «gufi», usciti da quei globi luminosi precedenti dalla loro rovente allusività iconica, mostra un pullulare più fitto e pieno di occhi, spalancati o chiusi, di pupille invadenti o mute, occhi, pupille di personaggi riuniti in convegni misteriosi attorno a una scena in cui si decreta un destino che è anche il nostro.

    Si popola il suo universo pittorico di questi fantasmi, di mostri innocenti o terrificanti, scendono delle presenze ectoplasmatiche da quella nebulosa avide di fingere umane sembianze, comportamenti, funzioni, ma ora già ne ripetono i gesti, gli strumenti, la vita, ostaggi e testimoni di un comune processo, di un giudizio che tutto coinvolge e di cui nessuno può illudersi estraneo. Viene a scrivere il pittore, in una pagina di esemplare chiarezza, parlando di sé e delle sue esperienze:... «Il mio lavoro è dialogo doloroso, ossessivo tra me e l’opera, tra le visioni che vorrei salvare e le contaminazioni che debbo combattere e nascono così le mie metamorfosi, le ore calde, gli autoritratti contaminati, i processi in giallo-arancio, i processi a due, i processi a tre, processi di nascita e di morte, quali dialoghi di verità per un futuro che è dentro la mia coscienza». Una lucidità dunque, nell’analisi oggettiva di una situazione che la riassume, che si spiega invero con l’esplicito dominio strumentale e poetico di queste immagini giunte ad una tensione surreale estrema, ma cariche pur sempre di una vitalità premonitrice che ne illumina il contenuto, partecipando egli intrinsecamente della piena dimensione espressiva, di una significante istanza umana e culturale. Quei processi si svolgono in un tempo senza scarti, quasi sospeso in un dibattito che non si chiude, prolungato nello splendore infinito del suo misterioso e più vero significato.

    Ma da quegli spazi, come per un improvviso squarciarsi di una cortina, emerge e si rivela l’autentico volto dei fatti — la realtà opprimente delle corruttibili trame quotidiane, l’urto di conflitti e il peso di assurde prospettive, — risolti in pregnanti immagini, in luminose epifanie di una propria intensità espressiva, di una specifica essenza lirica. Si tratta più spesso di scene allegoriche, di racconti visionari in cui il pittore contempla, rappresenta nell’interiorità del suo essere, una vissuta o riflessa vicenda, sempre però con sguardo lucido e penetrante, con una disposizione che riscatta, nel percepire, ogni circostanza mondana ma carica di una tensione che dal cuore alla mente, dal cuore all’occhio, a lungo capta ogni ragione, ogni rapporto che prema oggi sull’uomo. Da tali premesse quindi nascerà, successivamente, un bisogno di stringere e dominare questo nucleo di fatti e di significazioni simboliche, attraverso il rovesciamento inquietante del suo codice espressivo, degli strumenti e funzioni della sua iconografia più ricorrente: le sue metamorfosi infatti trapassano dalla chiarezza affettiva, quasi intimista nella decantazione evocativa di interiori proiezioni, di medianiche realtà psichiche — in una dimensione peraltro puramente soggettiva — a una distintiva opposizione, a una più contaminata quotidianità con le cose, con i significati anche ambigui e provvisori del nostro presente, o meglio con le sue forme, col suo spazio limitato, con un ambiente cioè definito e condizionato dai nostri rapporti e dalle nostre azioni. L’insistita tematica dell’autoritratto mostra esplicitamente lo scopo di questa volontà di identificazione, di una più consapevole autenticazione portata sulle cose, sull’esterno percepito ancora in chiave di visionaria immaginazione, da cui trae significato la sua inquietante sensibilità. Mutano infatti le funzioni che i suoi personaggi intrattengono nei globi trasparenti dei loro spazi e ingranaggi, dove si rimuove un processo di conquista, una vicenda di ossessivi stupori e di grottesche modificazioni, di sconvolgenti intrusioni e di illuminanti attese.

    Notari riprende e approfondisce questi motivi di una serie di disegni, dalla grafia intensamente mobile, la quale descrive ora formicolanti figure larvali inglobate in una sfera, presenze chiuse e prigioniere dei loro incontri, dei limiti delle loro stanze rotonde, entro cui tentano approcci e confidenze: occhi immensi o invisibili che si spiano e ci spiano, immersi in uno sbigottimento angoscioso. Si avverte da un lato un ritmo panico e struggente che tende ad investire quelle figure di un veggente parossismo, di una bruciante frenesia che tocca momenti diversi, dall’elegiaco al tragico, in una accorata rivelazione. Da ogni angolo della realtà, squilibrata nelle sue leggi naturali, contaminata da profonde disarmonie morali, insorgono queste forze, queste immagini patetiche e terribili, ostili e tenere partecipate cioè con indicibile passione, con effettiva verità umana.

    Ma dall’altro un colore, splendente e vitalistico, una feconda solarità purifica di sé quegli eventi mostruosi, riapre le bolle illusorie in cui covavano i fantasmi tormentosi, illumina questo spazio, popolato prima da forme disumane, gravido ora di pericolo, di agguati, nati dalla mente e dall’occhio più che dalla natura, e allora quelle figure, quelle metafore di una comunicazione ben più significante di tante pretestuose attualità oggettuali, narrano di convivenze e di abbandoni, di storie affascinanti che solo un occhio puro può penetrare, espresse in questo senso sì con libera e vera sensibilità ottica, con oggettivazione lucida e cosciente. I disegni di questa fase, iniziata all’incirca con la serie dei «processi», mostrano una nitidezza di penetrazione iconica tesa a scoprirsi nelle stesse sembianze dell’oggi, nei suoi simboli e nei suoi miti esorbitanti. Ormai i suoi personaggi-simboli si sono dilatati, sono cresciuti, sono usciti dai loro ovuli trasparenti, dal corposo e iridescente magma cromatico e psichico, passati da un tempo intenso e protratto a un moto lenticolare, carico non di meno di tensioni viventi in uno spazio che ha una dimensione antica e premonitrice. Intanto di questi personaggi si sono complicate, nella corsiva tessitura di un segno arabescato, di un intreccio labirintico, le loro strutture palpitanti, il meccanismo favolistico di un pullulare di cerchietti occhialuti; hanno anzi assunto un corpo, degli arti informi, occupando lo spazio, divenendo protagonisti esclusivi di quella scena — che ora somiglia a un ambiente che conosciamo, diviso come una stanza o un campo visto dall’alto da riquadri, da piani e da pertugi — indagati dentro lo schermo della loro coscienza turbata.

    Chiusi, ristretti in quei bozzoli trasparenti appaiono d’improvviso in primo piano colti in una istantanea, o ruotano entro i loro filamenti, in un intrico di nodi e giunture in cui svolgono la trama faticosa del loro esistere. La capacità inventiva di Notari svolta appunto su un tema monocorde, ricorrente si dispiega ora in tutta evidenza con una varietà di spunti immaginativi che trovano in questa serie di dodici litografie una esemplare testimonianza. Il tema è sempre quello che le sue singolari immagini hanno fin qui illuminato. Ancora le sue figure fantomatiche che si protendono sopra di noi, che abitano in noi prima che nei nostri progetti cosmici, che ci osservano dall’alto dei nostri spazi, che emergono dai recessi dell’universo, insidiose e calamitanti, feconde e rigeneranti, e che ora si trovano a ripetere i nostri atteggiamenti, si provano a stringere rapporti, a occuparne l’ambiente vivendo una comune situazione. Riacquistano qui più profondi significati rinnovate esse per l’appunto dal vigore latente di un loro, quasi perenne, stato ansioso, metamorfico: immagini speculari della coscienza e della storia in cui si racchiude e si riapre lo stesso ciclo della vita e della morte. Sarebbe facile reperire ulteriori consonanze di questo codice del cuore con gli interrogativi più veri della spiritualità contemporanea. In queste litografie si può comunque notare che il segno si impegna di un fermento nuovo, quasi seguendo un movimento inarrestabile, un’inquietudine implacata.

    L’immagine infatti risalta, ricreata cioè dallo stesso turbinoso ruotare di una evoluzione espressiva che ne descrive una più ricca ed accentuata sensibilità, una pregnanza più sottile e durevole. Il segno liberato ormai da una sua costituita intenzionalità, da una stessa nozione evocativa, mira a oggettivarsi come lo strumento ancora più duttile a fondare dei rapporti significanti, a costituirsi come il valore ipotetico di quelle immagini per una esigenza comunicativa che forse non può per ora che realizzarsi al limite dell’ammonimento e dell’interrogativo. E questo è già una forma di giudizio, certo, espresso da Notari con i mezzi più specifici della pittura, attraverso una sua singolare qualità lirica che non è solo partecipazione affettiva ma lucida penetrazione del reale.

 

Toni Toniato, Notari. Litografie, Galleria del Cavallino, Venezia, maggio 1966.

 

 

Che mi ricordi, Notari cominciò dipingendo dei gufi; erano già personaggi già presenze ossessive e inquiete; roteavano grandi occhi come soli primordiali di epoche remote, allibiti e feroci. Potevano essere ancora le figure di un sogno favoloso, i traumi e le fantasie dell’infanzia; ma anche erano già dei testimoni o dei giudici. La vita, sotto il loro sguardo fisso, non poteva più avere i suoi nascondigli, ci si sentiva di continuo scrutati, e giudicati, anche senza saperne la ragione. Per questo già mi era capitato di ricordare il “Processo”; e la cosa torna giusta non soltanto, come pensavo allora, per quella impassibile ambiguità, ma, come vedo ora, anche per quel tanto di mistero tranquillo, di orribile nella delicatezza, di terrore nella chiarità, che è apparso poi evidente nelle tele recenti e che è uno degli elementi più impressionanti delle pagine di Kafka. La parola ha un alone di incomprensibilità che suggestiona, si sente che rimanda con sicurezza a fatti inconoscibili, a una suggestione insolita, perché semplice, del mistero; così le immagini di Notari, e già quei suoi primi gufi.

    Vennero poi opere più amalgamate di materia e di colore; erano rimasti quasi solo gli occhi, ma immersi in una sostanza spessa e delicata che si apriva come un mostruoso fiore tropicale: frammenti di occhi, germi di occhi, dilatazioni paurose, acute iridi, strette fessurazioni di palpebre. Il quadro continuava ad essere una sorgente inquieta di sguardi. Ma intanto, nell’ambiente organico, l’imprecisione dell’immagine si organizzava su suggestioni quasi naturalistiche: nuvole infuocate, ombre di vento, linee di colline. Finché lo spazio fu conquistato; divenne netto, vuoto non organico; uno spazio astratto, senza determinazione, un luogo dove crescono i grovigli delle figure; se l’immagine di Notari aveva una origine onirica, il sogno è diventato preciso ambientato, ancor più pauroso. Rimane l’ossessione degli occhi, degli sguardi; cresce anzi. Questi esseri mostruosi, queste teste ancor molli della nascita, queste lanterne che spiano, si uniscono strette e aggrovigliate in un ammasso proliferante nel mezzo dello spazio; e le delicatezze, i pallori, gli sfumati di cui sono fatti rendono ora più sottile e quasi più orribile, nel contrasto, la loro presenza. Il colore è ancora una dolce, ostinata ossessione di Notari: i rosa, i gialli lievi, gli aranci ora pallidi ora accesi, diventano variazioni ricchissime su poche note. Come a vedere la luce del sole attraverso le palpebre chiuse. Sono i toni, infinitamente ritornanti, di un visionario. Di un poetico, misterioso, a volte terribile, visionario del Sud.

 

Roberto Tassi, Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria della Steccata, Parma,  26 novembre-9 dicembre 1966. 

 

 

La genesi dei “processi” di Romano Notari, che negli ultimi anni vanno facendosi rilevati e lucidi, pare affiorare da tempi immemorabili, ma si esprime in una forma intensamente nuova, prese nella temperie di una visionarietà ardente che vigila sulle esperienze presenti e imminenti dell’umanità. La luce fluorescente di ogni episodio biomorfico che si accampa nelle sue incisioni-disegni, pitture, ne conserva un carattere misterioso, ma di vicenda più vissuta che osservata. Tutto trapassa così nella grana favolosa di un’epitome mobile, di un trofeo accorato delle movenze naturali e probabili, che fa rievocare nascite terrestri, immerse in una luminosità di giorni e notti d’incubi tutti nostri. L’emanazione semplice e profonda di queste figure di Notari mantiene caratteri di ambiguità eloquente, di semi abissali e insieme quasi di corpi celesti, che si propagano accanto o piuttosto dentro la materia umana, ora con tenebrosi ammiccamenti, ora con sorprendente tenuità vitale.

    Il dipinto era già negli anni passati denso di macule e di presenze; ora si colma di più precise cellule, esseri nascenti in viluppi arcani. È certo che l’alterazione del colore che interviene a sottendere quasi con grazia la sostanza, ha un enorme potere di aumentare l’agitazione tesa di quell’”ectoplasma fosforescente” (Franco Russoli) in cui via via prendono consistenza elementi organici in formazione, che spesso accennano ad un orrida metamorfosi. Di fronte a questa vita delle forme è difficile non pensare ad un amore penetrante per i misteri più gravi della vita, congiunta ai suoi capi drammatici di nascita-morte, risentita come un insistente battito di corpi emergenti da un magma di tempi primi, e in eterna palingesi dal grembo della natura che, per quanto esplorato e frugato dalla scienza, permane così nebbioso e ignoto. Il rapporto tra noi e la materia dell’universo è avvertito in uno stato di sogno, ma con tensione consapevole che alterna, per passaggi evanescenti e nitidi insieme, una percezione acuta e sensuale della “cosa”, (ma quasi allo stato indefinibile della conoscenza) fino ad un suo fantastico sentimento e riconoscimento. In quella condizione alterata e panica, ma anche lucidissima, avvertiamo l’evento come possibile, e carico di una sua ardente e funesta verità. Anche quella pallida architettura che ora fiorisce e scandisce foglie e croci e rose geometriche — come gli “ovali” e “circolari” dei dipinti precedenti — può essere il segno dell’ intelligenza che tenta i suoi schemi logici su quegli occhi turbati, movimenti serpentini di invertebrati che tendono ad enfiarsi con forza d’incubo inarrestabile; elementi costruttivi che appaiono appena sufficienti a disporre quella crescita insistente in una sezione e situazione dominabile, non fosse che con l’occhio di qua da una lente o dall’oblò di una capsula spaziale. La esplorazione della natura diviene una storia di lunghi e vivi rapimenti, gemmando le “cose” ignote con un respiro che si fa sempre più scoperto e vicino, in cui vite paleozoiche riescono a invadere con effluivi intraprendenti i limiti, fragili, di una pellicola che li teneva in serbo. I tremori del cuore per gli spettacoli già così presenti e anche futuri, che ci offre la materia segreta del mondo, appaiono appena sospesi tra un aspetto possibile e un altro quasi chimerico; eppure questa Gorgone di crittogame e molluschi in cammino è ormai ben più vicina di un mito.

    Ma è difficile dir meglio di Francesco Arcangeli, quando ha scritto che “Notari... operando nel presente, accumula un passato molto lontano e un futuro chissà quando a venire: un futuro singolarmente “marziano”, ma ancora umanissimo, dove su noi piove un’invasione di sguardi, di presenze ancora ignote, ma germinanti”. In questo modo di prendere e fissare un processo vivente e ancora oscuro, in cui paiono risonare le voci di Poe e di Kafka, un pittore che veda con quell’intelletto poetico, è portato oggi ad una tenace esasperazione del sentimento a contatto con certe probabili ineluttabilità della vita e del suo incredibile svolgersi, tanto che è fatale si ponga di contrasto alle retoriche del progresso. Immancabilmente Notari ha visto, dall’inizio, profondarsi in abissi e paurose prospettive le cose che vivono. L’intensità del dramma si sprigiona quindi in un modo, lento e penetrante, in equilibrio tra l’urgere del fondo oscuro della coscienza e l’obiettività partecipe che osserva con attenzione tesa. L’eccezionalità dell’apparizione, di queste orde di movimenti tenebrosi appena distaccati in una torma di schermo limitante, si aggira come un meteorite che, incandescente e chiuso dapprima, è andato sempre più accostandosi, profilando meglio gli esseri che lo abitano.

    È questa di Notari una dimensione di comunicazione drammatica e responsabile alla realtà delle ricerche moderne, calandosi nel cuore di di uno spazio-tempo complesso e che non intende sfuggire, con forzato ottimismo, alla vicenda più segreta e bruciante dell’immaginazione e della vita. Il pittore va molto più addentro al terrore di sempre, quasi col piede sull’orlo degli abissi a guardare nel tondo. Nel valore dei segni in sviluppo continuo si snoda una partecipazione attonita e silente, con un nodo in gola per quella stupefazione e spavento che prende vigore ogni volta che, invece di ammirare la bellezza di un bisturi, l’occhio veda la carne aprirsi e occhieggiarvi la strana materia pronta alle colonie di cellule fiorenti, avanzanti, divoratrici. E tuttavia la sottigliezza fermentante delle linee e delle tinte che coagula qua e là a chiazze più dense o più rade; un colore tenue dilagante, viola o rosa, o giallo velato, che tendendo a fluire rende più vivo il malessere, sono tuttavia segni di un atteggiamento ancora pietoso, di un sensibile allontanamento dell’orrido crescente, attraverso il sottile diaframma del fine tracciato e del tono. La raffinatezza di questo gioco della paura, lo rende perfino di un humour sapido e umoristico, toccando un morbido avvolgente intrico barocco, espanso come un fiore, colmo di un sapore di bellezze strane e malefiche.

    Ma il significato non va perduto, poiché è grave la persistenza e la fissità dei basilischi, degli occhi di serpe dalle palpebre gonfie, come di animali del buio, di sotterra, dei tondi d’acqua, di caverne e viscere (Notari aveva cominciato a dipingere gufi). Una pittura, questa, che, se si vuole, ha svolto il più vero senso dell’informale, che è stato tutt’altro che pura pittura di gesto, con finalità puramente dialettiche. Il crepitante organismo di Fautrier, la rapina terribile di Pollock, il disintegrante rovinio di Wols o anche l’irritante assalto del nero, dei segni come pulviscolo pesante che cresce sui nervi, di Michaux, non erano un atteggiamento esterno ed edulcorato come altri che si mossero, in seguito, in tanti scarsi epigoni informalisti. È quella qualità intensiva, tutta spinta da un’interna violenza di esperienze e di affetti, è passata veramente in un’opera vibrata come quella di Notari, che non fa dell’arte sperimentale di adeguamento più o meno scientifico, se non nel senso che l’attività rinomata del linguaggio pittorico possa riflettere una incalzante necessità di comunicazione col mondo, di risposta tutta interiore.

 

Elda Fezzi, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria del Minotauro, Brescia, 28 ottobre-10 novembre 1967.

 

 

Già da diversi anni Arcangeli, in particolare, ha ben collocato il senso, e, direi, il luogo del lavoro di Notari nel contesto della giovane pittura italiana: un lavoro in contrasto con gli andazzi delle mode, e perciò ostico a chi delle sole mode sa farsi strumento per comprendere il presente e la sua realtà problematica (e siano mode “gestaltiche”, come, assai malamente, è stato detto, o, più propriamente, “op”, oppure “pop”, oppure di “nuova figurazione”, poco importa, perché la condizione di chi necessita di una paternità, di una appartenenza, è poi sempre egualmente supina ed arresa).

    Notari appunto, ha preferito seguire invece una propria via, indirizzandosi non solo ad uno scavo interiore, nel senso dell’avventura personale e solitaria, ma più precisamente ad uno spazio interiore, come esplorazione d’una dimensione evocativa, che per il suo accento sconfinatamente visionario sembra aver fatto tesoro della grande lezione di Michaux e del suo vertiginoso proiettarsi negli “espaces dei dedans’”. La sua vicenda creativa dall’inizio degli anni Sessanta è ormai ben nota: e vale perciò la pena l’insistere piuttosto sulle novità recenti, che, già sottolineate in personali del ’65 e ‘’66, (dopo la partecipazione a “Alternative Attuali 2” all’Aquila) e nei disegni esposti nella scorsa Biennale, sono ulteriormente proposte in questa nuova sua uscita.

    Si tratta, mi sembra, d’una volontà di dare, se così posso dire, margine costruttivo nuovo all’immagine, onirico-metamorfica che resta tipica a Notari (in una lata area di “dimensione della memoria” — come cercai di individuare appunto nella mostra di Aquila —, ed al versante più accentuatamente metamorfico di questa, dove si colloca “in primis”, per intenderci, l’opera di una Biasi). Ed ecco che tutte le pullulazioni immaginative degli anni precedenti aspirano ora, assai decisamente, a prendere corpo e consistenza non equivocabili, ad accusarsi per parti, momenti, episodi, magari cellulari, d’un organismo embrionale in espansione: embrionale appunto, ma come l’embrione già ben organizzato e strutturato, già quindi distinguibile e nominabile nelle sue parti, a sua volta distinte e differenziate. Forse si potrebbe dire che, rispetto al suo onirismo fluttuante e vago, come intenzione orfica e vagamente, soprattutto privatamente evocativa, Notari miri oggi ad un consistente ed articolato “discorso onirico”, nell’ambito di quella più vasta disposizione narrativa, in termini pur fra loro diversissimi, ricorrente con significativa insistenza nelle ricerche attuali.

 

Enrico Crispolti, presentazione in Notari, catalogo della mostra personale, Galleria del Cavallino, Venezia, 24 marzo-11 aprile 1967. 

 

 

 

“Occhi brulicanti di vita ossessiva”, “semi gialli-arancio”, “tuorlo di un uovo fecondato”, “futuro singolarmente marziano”, “personaggi immersi e deformati in atmosfere che si espandono”, “mostruosi fiori tropicali”, “teste ancor molli della nascita”, “visionario del Sud”. Questo florilegio di definizioni l’ho tratto da alcune presentazioni di mostre personali che Notari ha tenuto nell’arco di tempo compreso tra il novembre 1964 e il dicembre dello scorso anno. Mi rendo conto che tali citazioni, espunte dal loro contesto, si caricavano di un più violento significato teratologico, quasi che Notari, a corto di argomenti poetici usuali, voglia épater le hourgeois utilizzando il repertorio del più vieto grandguignol o, se preferite, il bric-à-brac di certo surrealismo tendenzioso e programmatico. Ma il loro significato letterale in ogni caso non può essere stravolto. Esso dà la misura di come una lettura esclusivamente fenomenologica delle opere del pittore umbro ci abbia consegnato l’immagine falsata e vagamente stravagante di un artista di tutt’altra tempra.

    Per convincersene si legga la dichiarazione di poetica dettata dallo stesso Notari per il catalogo de “Lo spazio dell’immagine”, la stimolante rassegna d’arte visuale allestita quest’ anno a Foligno, alla quale egli è stato invitato a partecipare: “Ho pensato di collocare il mio elaborato pittorico Processo spaziale religioso in un soffitto di un ambiente semplice dalle pareti libere. Questo per condurre lo spettatore ad un complesso, completo raccoglimento verso l’alto. L’elaborato pittorico, con i suoi inserti aggettanti, dal valore simbolico di pietre-stimmati, esce dalla sua dimensione, crea nuove e molteplici visioni, si articola e si completa nell’unità della visione. Si spande nel suo colore giallo-solare, si fa luce, ci rende partecipi dello spazio luce, dello spazio tra le immagini, si proietta verso lo spettatore per condurlo a sé, ci coinvolge nel tutto, si fa pathos e l’uomo è libero di meditare”.

    Notari ha avuto a disposizione un piccolo ambiente cubico e dipinge il soffitto. Perché? Perché l’uomo rivolga gli occhi verso l’alto e sia libero di meditare. Ho il sospetto che gli autori delle terminologie che ho citato più sopra siano stati choccati dall’“ambiente’’ realizzato a Palazzo Trinci da Notari. È probabile, infatti, che essi si aspettavano da lui non un soffitto dipinto — di cui è evidente la fungibilità animistlca — bensì cinque pareti, e magari anche sei, popolate di mostri e di visioni orripilanti da delirium tremens. Dunque Notari ha smentito i suoi critici? Temo proprio che sia così. Il Notari homo haereticus che pratica l’oniromanazia, il supposto evocatore di creature macrocefale di dubbia credibilità, l’istoriatore in chiave surrealistica di vicende sub-umane, il razzista che pretende surrogare la società dell’uomo con una superfetazione di esseri che concentrano ogni istinto negli organi visivi, confessa di essere, contro ogni apparenza, un mistico e nient’altro. Il resto viene da sé.

    Le “presenze” che occupano i suoi quadri siamo noi: io, tu, lui, gli altri, ridotto alla stato larvale. Il tessuto cromatico giallo solare che ci circonda è il nostro bisogno vitale di luce e calore. La nostra sete di solitudine è insidiata dagli sguardi di una miriade di occhi, che ti scrutano fin nella più riposta latebra e ti costringono a rivelarti per ciò che sei: un piccolo essere massificato che ha imparato dagli animali inferiori l’abitudine al mimismo e che per uscire dalla sua condizione alienante tenta disperatamente di re suscitare dal suo io i lemuri di una vicissitudine umana che sembra ormai appartenere esclusivamente al mondo dell’inconscio o a quello della illusoria restaurazione psichedelica. Empietà e ipocrisia sono le stimmate dell’uomo contemporaneo; nei suoi confronti Notari non esprime alcuna condanna, ma solo comprensione e dolente pietà. Come tutti i veri mistici, cioè i puri poeti racchiusi nelle torri eburnee, Notari può enumerare all’uomo esistenziale le cause del suo malessere, ma non sa indicargli la strada del suo tornare in sé.

 

Carlo Melloni, Romano Notari, Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria d’Arte Scipione, Macerata, 2-14 dicembre 1967. 

 

 

La pittura di Romano Notari si pone preferibilmente tra i simboli che non tra le metamorfosi. Il colore stesso, un giallo luminoso che sfuma o si carica di trasparenze rosa, è già un simbolo di colore-luce, luce solare. E le forme rotonde che si presentano nei suoi quadri con insistenza e si espandono, si sovrappongono come un propagarsi di onde luminose, sono il simbolo dell’anima, come ha già detto di sé l’artista, della creazione genitrice. E di questo passo si potrebbero trovare altre corrispondenze al processo evolutivo di queste forme, e difatti si è parlato di procreazione che ora matura sotto i nostri occhi. Per questo dicevo che non si tratta di metamorfosi, ma di crescita. In ordine a tale constatazione, non si può fare a meno di ricordare che già Klee, verso il 1920, aveva detto di voler penetrare a forza di intuizione poetica nel cuore dell’universo, dove le cose non sono ancora nate. La condizione della cultura è, certo, diversa; Klee aveva un'inclinazione precisa verso l'astrazione geometrica; e in Notari semmai si riscontra una certa propensione al fantasticare surreale. Ma surreale vuol già dire una trasformazione ambigua, un sovrapporsi di sensi e di significati per cui una figura prende significati traslati. E qui invece c’è un sorgere, un crescere, un formarsi, che per ora è allo stato embrionale ma va verso un condensarsi di vita. Semmai lo stato ansioso che questi quadri comunicano è di altro genere il non sapere ancora che cosa tali ovuli germinanti diverranno. E allora l’interrogare che provocano riguarda da la vita, l’essenza, e non il sogno, né lo sprofondarsi buio nel magma indistinto o addirittura malefico della duplicità.

    Anzi, poiché Notari accenna volentieri per la sua pittura a reali necessità spirituali, mi pare che queste notazioni di principio servano a mettere in evidenza i suoi impegni perché questa vita ancora in vitro cresca fino a manifestarsi come “dialoghi di verità per un futuro che è dentro la mia coscienza”. Si capisce allora meglio perché Notari accenni anche a processi di nascita e di morte. Il suo discorso per immagini, e solo per immagini. tende cioè a punti estremi dell’esistenza, ai quali non c'è scampo da parte di qualsiasi organismo vivente. Si può accennare a motivi di drammaticità per queste immagini, che alludono appunto a una crescita germinante; ma è drammaticità strettamente connessa all’esistere, una drammaticità che è nella stessa vicenda del mutarsi di un ovolo o del crescere di un bambino e tuttavia il bambino ha sempre la curiosità di proiettarsi in avanti, per prendere alla fine coscienza di sé e del mondo. Per questo, almeno mi pare di capire, Notari ha scelto il giallo colore della luce; se la drammaticità fosse speranza, d’istinto avrebbe scelto il colore della cenere o del nero notturno. Da qui si avverte la dimensione di una perennità, che può anche essere di ordine metafisico. È lo stesso Notari, ripeto, a parlare di spiritualità. Ma fatto cenno a questa chiarificazione del processo creativo e non distruttivo, è bene tornare al quadro senza più preoccupazioni di questo tipo. Esso stesso è un "esistente" che ha ragioni sufficienti per essere considerato come organismo pittorico, che ha in sé tanta bellezza di luce e di colore da non richiedere altre integrazioni contenutistiche per imporre la sua presenza.

 

Marco Valsecchi, presentazione in Notari. Olii e disegni, catalogo della mostra personale, Nuovo Carpine Galleria d’Arte, Roma, 12 dicembre 1969 -16 gennaio 1970. 

 

 

Romano Notari appartiene a quella famiglia di pittori, il cui lavoro, per quanto si sviluppi e progredisca nel tempo, sembra subire poche variazioni; la cui storia quindi si accumula senza fratture, senza cambiamenti, ma continua ininterrotta a svolgersi, quasi con instancabile ripetizione, sulla traccia di alcuni nuclei, solo intenta ad approfondirli, a scavare più che a dilatarsi, attraversando lentamente gli strati che ne formano lo spessore. Ne risulta un’apparente monotonia e nel complesso della storia ogni opera rimanda a un’altra, in un susseguirsi costante di entità che rimangono totalmente individuate, poiché sono organismi completi e autosufficienti, conservando però elementi comuni, sia pur modificati e adattati alla nuova struttura. Ma la ripetizione e la monotonia non sono reali; solo esteriori apparenze, pronte a dissolversi sotto l’azione di uno sguardo che, anziché vagare trascorrendo su tutta la vasta superficie, fissi a lungo su un’immagine il suo tempo di visione e di conoscenza.

    Apparirà allora la ricchezza di ogni opera, il significato nuovo, rispetto alla prima costituzione, che la variante aveva portato, aggiungendolo ai precedenti e procedendo nello scavo; si dissolverà il velo della monotonia per lasciar posto alla molteplicità delle avventure. Negli artisti di questo tipo è più facile studiare un fenomeno che sta alla base della loro produzione, del processo attraverso il quale l’immagine nasce e prende chiarezza oggettiva; che invece in altri richiede un lungo lavoro preliminare per identificare le forme e ridurle agli elementi essenziali, sfrondando la fitta vegetazione che li nasconde. Questo fenomeno si dà qui come ipotesi: ogni artista è portatore di elementi originali, che sono come impronte fisse, specie di modelli formali, di provenienza ignota, ma forse già presenti, almeno in forma potenziale, al momento della nascita (come certi elementi del carattere e della personalità); queste impronte sono situate in uno stato molto profondo dell’Es (e tendono quindi a rimanere inconscie). Non sono archetipi, nel significato psicanalitico primario (che è quello junghiano), per quanto vi si possono situare vicino; ciò che li differenzia è la loro specificità individuale, mentre gli archetipi sono impronte arcaiche, e come tali comuni a molti individui, “collettive”.  

    Queste impronte formali fisse richiedono un lavoro molto faticoso da parte dell’Io (e l’aiuto delle varie influenze del mondo esterno) per essere portate alla coscienza, al livello conoscitivo e poi espressivo; diventano allora gli elementi di individualità e di differenziazione del lavoro di un artista e si ritrovano in tutte le opere, variati, occulti e ridotti ma immutabili nella loro sostanza di fondo. La lotta di un artista consiste quindi nel loro progressivo svelamento, diventa come l’illuminazione di quel paesaggio segreto. C’è una frase di Proust “Car le style pour l’écrivain, aussi bien que la couleur pour le peintre, est un question non de technique mais de vision. Il est la révélation, qui serait impossible par des moyens directs et coscients, de la différence qualitative qu’il y a dans la façon dont nous apparaît le monde, différence qui, s’il n’y avait pas l’art, resterait le secret éternel de chacun. Par l’art seulement nous pouvons sortir de nous, savoir ce que voit un autre de cet univers qui n’est pas le même que le nôtre, et dont les paysages nous seraient restés aussi inconnus que ceux qu’il peut y avoir dans la lune. Grâce à l’art, au lieu de voir un seuI monde, le nôtre, nous le voyons se multiplier, et, autant qu’il y a d’artistes originaux, autant nous avons de monde à nôtre disposition, plus différents les uns des autres que ceux qui roulent dans l’infini et, bien des siècles après qu’est éteint le foyer dont il émanait, qu’il s’appellat Rembrandt ou Vermeer, nous envoient encore leur rayon spécial”; la “différence qualitative”, il “rayon spécial” sono appunto elementi specifici, che derivano dalle impronte originarie, e caratterizzano, nella loro inesauribile diversità, gli “artisti originali”. Così si spiegano i due caratteri più appariscenti della pittura di Notari, vista nel complesso: da un lato il discorso figurativo uguale, “monotono” e ininterrotto dalle prime prove fino ad oggi: dall’altro l’indipendenza da modelli culturali e formali esterni, cioè l’originalità, l’invenzione del tutto nuova dell’immagine.

    A questo punto diventa quasi senza interesse il discorso sulla “modernità” di questa pittura, poiché si rischierebbe di identificarla, come molto spesso avviene, con ingredienti esterni. Infatti una volta che si sia riconosciuta l’apparizione nell’opera dei modelli formali interni, cioè la necessità assoluta della nascita dell’immagine, questa, per sua natura, non potrà che essere “moderna”, indipendentemente dai fattori tecnici. L’immagine di Notari porta così in sè stessa, come condizione indispensabile, alla sua esistenza, la sua “modernità”. Ma volendo anche accettare il dialogo con chi pone come segno di “modernità” la novità dei materiali e la contemporaneità dei contenuti, insomma ciò a cui ormai oggi si è ridotto l’avanguardismo dell’opera, si potrà dimostrare che queste non mancano nel suo lavoro, ma che non sono che un completamento “culturale” della originalità e modernità autentiche. In Notari soltanto non c’è la “trovata”; quella che differenzia un “produttore” dall’altro, non in senso artistico ma meccanicistico.

    Una pittura della luce, credo che questa sia intanto una definizione, generica ma indispensabile, dell’opera di Notari; e che sia quindi anche lo scopo principale della sua ricerca. Il desiderio di Notari è di dipingere, cioè rendere in immagine, non la luce che illumina gli oggetti e che, arrestata dalla loro opacità, crea l’ombra, tantomeno gli accidenti della esistenza naturale, ma la luce in sè, che tutto avvolge e penetra, vince ogni resistenza e anzi si fa sostanza, fibra e umore delle cose, in un mondo che non conosce le ombre, ma è tutto aperto, visibile, dichiarato. La luce di Notari non è nemmeno quella dei pittori che più forte stringono lo spirito con la materia, e la fanno emergere dalle profondità dell’immagine e affiorare dopo avere attraversato spessori di buio, come oscura scaturigine interiore. Essa è funzione dell’immagine, che può solo vivere in questa chiarità senza tempo; è un’essenza che si pone come scopo ultimo della visione e come tale diventa simbolo, cioè rimando a una verità nascosta, inconoscibile in sé; è infine l’elemento che determina e crea lo spazio e non per il solito tramite del chiaroscuro, ma in modo del tutto opposto, per tramite della totale invadenza, del completo coinvolgimento; per cui viene anche abolita la distanza, e ogni elemento dell’immagine, sia vicino sia lontano, si pone in una presenza che non tiene conto di questa fisicità spaziale, ma entra con gli altri elementi in un rapporto di spirito; quello appunto creata dalla luce. Lo spazio insomma si identifica con la luce e tende a provocare in chi guarda una reazione di tipo contemplativo. Il quadro di Notari diventa così il luogo del passaggio dal luminoso al numinoso; quasi un tentativo di dipingere un verso del “Paradiso”: “nel giallo della rosa sempiterna”.

    Questi sono infatti i colori fondamentali di Notari, una gamma molto omogenea che sta tra il rosso da un lato e il rosa pallido dall’altro, avendo il suo centro sul giallo e l’arancione, una gamma calda, di “colori attivi” ; e poiché essa si ripete con costanza quasi ossessiva in tutti i tempi del suo lavoro, acquista un significato che va ben al di là gusto e sensibilità pittorica e si pone, oltre che intrinseco all’opera, anche come elemento primario della costituzione psichica e spirituale del pittore. Anzitutto questa omogeneità del colore è strettamente legata al problema della luce, anzi è proprio il modo che egli ha di creare la luce; in quanto luce e in quanto “calore” è un elemento solare. Il sole, si sa, è un simbolo paterno e per Notari questo legame con il padre passa facilmente, entrando nell’ambito religioso, ad un rapporto con il Padre supremo, ad un tentativo quindi di esprimere un’ascendenza mistica; ma già dal primo periodo del suo lavoro, quando ancora non è cominciata la fase esplicitamente religiosa, l’uso di questo colore ha anche questo significato. Il sole poi è il fattore che dà la vita, che stimola la germinazione e infatti l’opera di Notari , proprio nella sua insistenza sulla gamma calda intende assumere un senso gioioso, di vita che si apre e si sviluppa di fiducia in questo divenire e quindi di speranza. É una germinazione però che non sopporta il peso dei processi terrestri, il cieco e incosciente agitarsi della vita dentro strati oscuri e gravi del profondo; è invece una germinazione chiara, che avviene nella luce, nel tepore della luce, un germe che si sviluppa in un’aerea chiarezza, ed ha la levità del simbolo spirituale, piuttosto che la presenza indistinta e diretta della materia.

    É molto significativo vedere quanto contrasti, questo uso della gamma basata sul giallo, con l’interpretazione simbolica che di quel colore dà Kandinsky in un capitolo de “Lo spirituale nell’arte”, dove c’è scritto: “il primo movimento del giallo, la tendenza ad avvicinarsi a chi guarda, (aumentando d’intensità il giallo) può portarsi fino all’esasperazione, e anche il secondo movimento, quello di superare i limiti, di disperdere la forza nell’ambiente, sono uguali alla proprietà di qualsiasi energia materiale, che si precipita inconsciamente sull’oggetto e si spande disordinatamente in tutte le direzioni. D’altro canto il giallo, quando è guardato direttamente…rende l’uomo irrequieto, lo punge, lo eccita e rivela il carattere della forza espressa nel colore, che opera sull’animo in modo arrogante ed esasperante...Il giallo è il colore tipicamente terreno”. Notari entra invece nella tensione di una antitesi, si serve degli elementi formali propri dell’esperienza terrestre per dare la sostanza spirituale, celeste, della sua ispirazione; e l’elemento dinamico centrifugo, straripante, che è nel suo colore, non si configura in vitalità, crescita eccessiva e irrazionale, ma in movimento d’amore.

    Già l’uso costante di un’unica gamma cromatica indicazione di un mondo pittorico in cui non hanno vigore i fatti naturalistici e le leggi della realtà; già il colore ci introduce in una pittura di visione. Quando il pittore guarda un oggetto, questo si trasforma ai suoi occhi, attraverso un processo irrazionale e intellettivo a un tempo, in un essere nuovo che conserva alcuni dei connotati originali, ma assume un significato diverso di testimonianza simbolica; questo movimento è diretto dall’immaginazione, che dispone le sue “figure” sulla traccia delle impronte fisse dell’Es. La pittura di visione così intesa, e questa di Notari che è tra le più originali che io conosca, non ha rapporti con il surrealismo, non ne può condividere il meccanismo automatico di formazione dell’immagine, e tanto meno la dimensione onirica; lo spazio del sogno, i legamenti irrazionali nella apparenza e strutturati nel fondo, che lo caratterizzano, i fenomeni della condensazione e della deformazione simbolica, tutti i fattori tipici insomma della sequenza onirica non corrispondono alla “visione” che si attua nella pittura di Notari. La “visione” di Notari nasce da un lungo meditare e dallo svolgersi lento di un pensiero che stringe, nel rigore di una immagine prevista e costruita in ogni punto, sentimenti e impulsi solitamente affidati all’immediatezza dell’irrazionale.

    Così i meccanismi dell’intelletto e le accensioni della fantasia si trovano uniti per affermare ancora l’esistenza non di leggi logiche o di vicende oscure, ma di antiche ragioni dell’uomo; che ritornano a nascere nell’equilibrio precario di una situazione presente instabile e soggetta a paurose destituzioni, come sull’orlo di un abisso; ma radicandosi in questo luogo da vertigini con una ostinata fiducia. Elemento primo di questa affermazione é il rapporto tra due esistenze; la vita diventa così un “essere insieme” e non è concepita al di fuori dell’amore che unisce, che forma sempre la sostanza del rapporto e vince la solitudine; per capire la pittura di Notari bisogna sempre tener presente, pur nella grande varietà delle figurazioni, questa situazione elementare della convivenza con l’altro; non si tratta di un dialogo, ma di un immobile consistere comune, della propria presenza vicina alla presenza dell’altro, di un muto evento di vita; di qui nasce un senso di gioiosa accettazione, quasi inconsapevole perché diretta dal destino, e quindi il moto, mai deluso, della speranza: l’avvenire è sicuramente un compimento felice del rapporto, un’espansione e uno sviluppo definitivo nella luce,una vittoria della vita. Infatti quel rapporto fondamentale della coppia continuamente nutre la vita; anche da questo lato si arriva al processo della germinazione, all’immagine come figura di un fattore attivo che si sviluppa, che si espande e cresce in una catena ininterrotta di procreazioni.

    E se facciamo attenzione ai titoli di ogni opera, che, come è naturale in una pittura di visione, sono pieni di significato, vi vedremo ritornare con molta frequenza il termine “processo”; questa è la parola che Notari usa per definire la maggior parte degli eventi che si compiono nelle sue opere, in ogni opera un processo diverso. Diciamo subito che in questa denominazione è implicito innanzitutto quell’elemento di vita in crescita al quale siamo già arrivati seguendo altre vie. Processo infatti è qualcosa che avviene nell’opera (anzi l’opera esiste proprio in funzione di questo avvenimento); è quindi un fattore dinamico, elemento fondamentale di vita. L’opera è così intesa come un organismo all’interno del quale le strutture non sono fissate per sempre in una funzione assoluta, ma partecipano di un movimento, di una possibilità di sviluppo e di modificazione che rimanda al futuro. Processo è quindi il senso del divenire; le cose, le presenze, i simboli delle essenze umane, i germi della vita, che si raggruppano, si dispongono in immagine, sono pronti ad aprirsi o, se chiusi, a conservare inalterate queste possibilità per il momento destinato. Processo è insomma la presenza, nell’opera, del tempo.

    C’è poi nella natura di Notari un elemento che può portarci ancora più avanti nella sua comprensione: è la predominanza delle linee curve, la cui più avanzata e “ultima” figura è la forma rotonda; questo elemento è fondamentale e specifico, quanto la “unicità” del colore e la ubiquità della luce, e con essi contribuisce a formare una triade di fattori primari, sulla quale sono fondati l’immagine e il senso di questa pittura. Fin dai primi lavori la linea curva è naturalmente usata per creare l’andamento generale e la struttura di ogni opera, manifestandosi in tutta la varietà dei periodi che segnano il percorso cronologico di Notari: che sia distesa su un lungo tratto o infittita in giri concentrici, addirittura stretta in gomitoli, allargata in volute o chiusa nel contorno netto delle forme fino alla perfezione assoluta della sfera dove non ha principio né fine, essa è sempre presente. Possiamo indicare alcune forme e figure che ne partecipano: l’uccello in tutte le sue modificazioni, dalla prima metamorfosi foglia-uccello, all’uccello malinconico chiuso in se stesso, con la testa inclusa nella forma ovoide o rotonda del corpo; l’occhio dell’uccello, aperto o chiuso; l’occhio grande, laterale e vibrante per le linee radianti, di quelle figure che sono le “presenze” umane-divine; il corpo delle figure “angeli” avvoltolato su se stesso come la spirale di una chiocciola; l’uovo; la rosa, i cui petali sono un avvitarsi di linee curve e che talvolta contengono anche inclusa, una per foglia, una forma circolare; il sole; la luna; infine la sfera. Talvolta queste forme sono in scritte una nell’altra, la sfera nel sole, gli uccelli nella sfera, i dischi nell’uovo, le piccole sfere nei petali della rosa o nei raggi del sole. Nella pittura di Notari troviamo così così una ricchissima fenomenologia del rotondo. Il primo risultato, e il più semplice, ottenuto da questa impostazione è quello dell’atmosfera di calma (già Bachelard aveva notato il fenomeno nei riguardi della parola stessa: “et pour un rêveur de mots, quel calme dans le mot rond!”; la suggestione fonica vale anche per l’italiano): è la calma del processo spirituale che si svolge nel profondo, di meditazione, di contemplazione, della vita che germoglia lentamente.

    Ma andando un po’ più avanti nel tentativo di interpretazione del rotondo perverremo a individuare (a ritrovare) i due motivi fondamentali nel mondo di Notari: da un lato l’immagine come fondazione di vita che nasce, si sviluppa e si allarga nella speranza del futuro; dall’altro l’immagine come visione mistica. Già Van Gogh aveva detto: “La vie est probablement ronde”. È poi sorprendente, per quanto collima con l’immagine di Notari, leggere una frase di Jules Michelet sull’uccello: “L’oiseau, presque tout sphérique, est certainement le sommet, sublime et divin, de concentration vivante. On ne peut voir, ni imaginer meme un plus haut degré d’unité. Excès de concentration qui fait la grande force personelle de l’oiseau, mais qui implique son estreme individualité, san isolament, sa faiblesse sociale”. Bachelard, che la cita, fa notare che Michelet dà in tal modo all’uccello il suo significato di “modèle d’être”, e scrive anche: “Michelet a saisi l’etre de l’oiseau dans sa situation cosmique, camme une centralisation de la vie gardée de toute part, enclose dans une boule vivante, au maximum par conséquent de son unité”; l’immagine dell’uccello come essere rotondo diventa così un “centro di cosmicità”. A questo punto siamo proprio in pieno dentro il significato che ha l’immagine dell’uccello nel mondo di Notari.

    Ma la forma rotonda va oltre l’uccello e diventa una sfera. Partendo da una famosa definizione medioevale di Dio, “Dio è una sfera il cui centro è ovunque e la circonferenza in nessun posto”, e ricordando poi altri esempi, sia pur modificati, di una simile concezione della teologia di quel tempo, si può interpretare la sfera come il simbolo di Dio, della assoluta perfezione divina; talvolta la sfera coincide con il disco solare, cui abbiamo già riconosciuto lo stesso significato. Ma la sfera è anche simbolo dell’anima (e quindi della sua natura divina) e in questa funzione continuamente la troviamo nell’opera di Notari; e il sole, come simbolo dell’anima, emette con i suoi raggi, che talvolta attraversano tutto lo spazio dell’opera, le sue irradiazioni spirituali. Georges Poulet, che ha seguito “les métamorphoses du cercle” attraverso le epoche storiche, giunto al passaggio della concezione medioevale a quella rinascimentale scrive: “Mais si chaque point de l’univers se révèle ainsi comme un centre à partir duquel Dieu s’irradie, il en résulte que l’homme aussi peut se situer en chacun de ces points pour contempler à partir de lui le spectacle magique de cette irradiation divine. “L’âme est une sorte de centre”, dit Giordano Bruno. Elle est un centre, non seulement comme le croient les mystiques, parce que Dieu y a sa demeure de prédilection, mais parce que ce lieu de résidence divine est aussi le lieu de convergence de tous les phénomènes cosmiques. “L’univers entier entoure l’homme, dit Paracelse, comme le cercle entoure le point”. Vista in questa prospettiva l’opera di Notari, in particolare quella degli ultimi anni, si presenta come una contemplazione mistica della vita.

    2. Nel 1955 le prime opere di Notari rappresentano gruppi di uccelli ognuno dato come individuo solitario nella sua forma circoscritta da un contorno preciso e lineare, in atteggiamento malinconico, con il capo ripiegato e le palpebre semichiuse; essi erano però già il prodotto di una iniziale metamorfosi, infatti alcuni disegni precedenti apparivano popolati di foglie la cui forma ovoidale cominciava in alcune a trasformarsi in corpo di uccello, i picciuoli mutandosi in zampe. L’elemento naturalistico iniziale era dunque la foglia, mentre gli uccelli dimostravano, già in questa genesi, la loro posizione emblematica, l’avvio cioè a costituirsi come simboli. Nella prima immagine dell’uccello malinconico sono contenuti cosÌ alcuni degli elementi fondamentali dell’opera di Notari. Esso ne è infatti uno dei protagonisti, comparendovi costantemente in una serie numerosa di trasformazioni; d’altra parte la malinconia che accompagna la sua presenza tinge quasi sempre l’atmosfera dell’opera e vi funziona come un freno segreto che delimita l’elemento gioioso, impedendogli un’espansione enfatica o violenta e contribuendo ad internarne il tono, a renderne più sottile e profonda l’espressione.

    L’uccello è una presenza misteriosa, che raffigura a volte l’umano, ma nella sua costituzione spirituale; è una presenza che medita, che soffre anche, che accoglie la vita nell’amore, e che tende alla sublimazione. É simbolo della vita e della libertà: la vita infatti si compie, si sviluppa ed accresce solo nella libertà, dopo essersi liberata dalla “pesantezza”, dalle scorie oscure che la ridurrebbero ai processi della corruzione; si espande ed accumula nella luce, che è la sostanza stessa della libertà. L’uccello indica il movimento dello spirito; “Le bas et le superficiel sont au même niveau” ha scritto Simone Weil; basso e profondo sono concetti opposti; cosÌl’abbassamento, che è una degradazione, e la discesa, che è il movimento verso il profondo: “Descendre d’un mouvement où la pesanteur n’a aucune part. ... La pesanteur fait descendre, l’aile fait monter: quelle aile à la deuxième puissance peut faire descendre sans pesanteur?”. L’uccello, poiché partecipa del terreno e dell’aereo, è anche il fattore che unisce la terra al cielo, il naturale al divino; e quindi per Notari è il simbolo più prezioso di una fusione misteriosa e fatale che racchiude il senso della vita umana. 

    Così nel corso dell’opera, come portatore di questo significato, subisce delle modificazioni che arrivano, da un lato a una sua incombenza frontale e gigantesca con grandi occhi come globi di luce, e dall’altro a una perdita di ogni attributo di riconoscibiltà per ridursi alla forma essenziale e quasi astratta dell’emblema. Nello sviluppo subito successivo alla loro prima metamorfosi, negli anni tra il 1959 e il ’61, gli uccelli subiscono una incarnazione così inattesa da renderli quasi irriconoscibili: appaiono non più in gruppo ma solo a coppie, uno di fianco all’altro, disposti frontalmente enormi ed incombenti ad occupare tutto lo spazio dell’opera, eretti come figure umane, delle quali in realtà sembrano ora indicare unii fantastica trasposizione; immobili, con i grandi occhi spalancati, o appena visibili tra le fessure delle palpebre, sono testimonianza del rapporto amoroso, prima stazione, ancora terrestre, del cammino verso la contemplazione cosmica e divina; qui è convivenza con l’altro, su un piano ancora naturale.

    Ciò che caratterizza queste opere, oltre l’originalità del mondo fantastico, è l’invenzione della luce, la cui forza di irradiamento nasce dal rapporto dei piani di colore, che, variando poco uno dall’altro, si differenziano soprattutto, e si legano, per la qualità luminosa. Così il giovane Notari entrava di colpo, e con una novità poetica tanto più forte quanto più ignorata, in una cultura figurativa allora tutta mossa dall’esplodere della situazione informale; e vi entrava con delle opere che, pur non contraddicendo del tutto a quella situazione, si ponevano però in una zona appartata, che avrebbe trovato ascolto solo più tardi. Ma quelle figure silenziose, immobili, quasi ieratiche, che sembravano il segno di una condizione umana di resistenza contro le destituzioni di ogni genere, non poterono continuare per molto la loro funzione di testimonianza e di guardia. Furono travolte, per cause anche esterne, dal turbine irrazionale e incandescente delle forme rotte, agitate, macchiate, che lasciava allora poco respiro. In questa esperienza, che per Notari occupa tutto l’anno 1962, il pittore cercò di non abbandonare le sue figure, di salvarle pur dentro il gorgo dei lacerti di colore, dell’aggrovigliarsi delle linee; dipinse così bellissime tempere, ricche di trame grafiche irritate, ma ancor entro i limiti, se pur ormai estremi, della figura, e di un trascorrere della luce che, dopo le calme e potenti stesure delle opere precedenti, si muoveva ora secondo il dilatarsi o l’infittirsi delle macchie cromatiche. Fu un momento in cui Notari dimostrò la sua sensibilità più che la durezza del suo destino.

    Così nel lavoro degli anni subito successivi, almeno fino al 1965, si protrae una visione sfatta delle forme, che, avendo perso la nettezza dei propri confini, si dilatano, si congiungono, gremiscono lo spazio, creando come un senso di germinazione organica; cosa in realtà lontana dagli intenti del pittore e anche dal vero significato di queste immagini, che si prestavano a una lettura in tal modo viziata; solo per essere nate in stagione informale e non avere del tutto resistito agli allettamenti che da quella si sprigionavano. Ma già nel 1963 appare nell’opera di Notari un processo di riorganizzazione delle figure, che cominciano di nuovo a coagularsi attorno a nuclei di immagine precisata, ancora teste, occhi e corpi di uccelli. Sono però immagini sacrificate, che stanno faticosamente ricostituendo la loro umanità, come se riapparissero dopo il soggiorno in una contrada misteriosa, che poteva anche essere il regno della morte, e si apprestassero ora a riprendere il loro viaggio verso la definitiva conquista della luce, verso il luogo divino della loro destinazione. C’era stato infatti nelle opere precedenti un corrompersi di umanità, il lasciarsi andare a una deriva insensata, un punto in cui l’esperienza poteva portare all’annullamento; solo una luce “mondana” rimaneva sulle cose.

    Ma ecco che la “visione” di nuovo si precisa, Notari ritrova lentamente la sua ossessione, riappaiono i titoli, rintocca ancora l’“ora calda”. Nascono in questi anni grandi opere, di una materia poco più densa, ma studiatissima, meditata, ricca nei passaggi cromatici, che arrivano fino alla sottigliezza poetica di rosa velati e tenui come polvere magica e di bianchi riscaldati appena da un’ interna accensione; opere fitte di figure tra le più tipiche del mondo di Notari: accanto agli uccelli che si riconoscono dagli occhi rotondi fessurati, appaiono ora certe “presenze” che derivano in parte da una trasformazione degli uccelli, ma che nella loro novità iconografica (teste allargate e un po’ piatte che danno l’impressione di esseri avvolgenti, non solitari) si costituiscono già come primi esemplari delle figure divine o come immagini di quella umanità che popolerà l’armonia felice del futuro.

    Ora i temi fondamentali di Notari, che in queste opere si sono precisati, vengono arricchiti dal nuovo tema dei voli spaziali. La ricerca e l’immaginazione di Notari si erano fin dall’inizio rivolte alla creazione di un mondo fantastico, in cui lo spazio non era localizzato, non trovava un riscontro obbiettivo, restava quindi aperto alla possibilità di riferimento ad altri mondi; c’è sempre stata in Notari l’idea di un rapporto cosmico, della possibilità immaginativa di abbracciare tutto il creato, senza preoccuparsi di differenziarlo, come se le forze cosmiche che lo reggono fossero uguali in ogni punto. “Credo nella bellezza del nostro e degli altri mondi” dice Notari con semplice naturalezza, quasi l’occhio interno della sua visione gliene avesse già data la prova. Questa posizione precorre e spiega il più chiaro enunciarsi delle opere degli ultimi tempi. In quel momento invece, anni ’63-’66, è l’episodio della conquista umana dello spazio extraterrestre che viene incontro ai desideri e ai problemi della sua immaginazione; così in questo gruppo di opere entra la nuova esperienza come Fotografia del 2000  o Processo agitato per corpo estraneo piovuto dal cielo o, in Aprimmo e vedemmo, come immagine apparsa agli astronauti all’apertura di un oblò della nave spaziale, ecc. È un modo, per Notari naturalissimo, di accogliere i temi del tempo, farli combaciare con l’opera, riflettere così e interpretare i fatti storici contemporanei.

    Un rapporto così immediato con le avventure spaziali di questi anni non rimaneva naturalmente, in un artista sempre portato a trasferire tutto in un al di là, a tendere cioè ai fini ultimi, ai simboli estremi, non rimaneva fine a se stesso, ma diventò lo spiraglio attraverso il quale il mondo di Notari si apriva alla visione cosmica, a quella che è appunto la sua ultima stazione d’arrivo. Per Notari però il cosmo non poteva essere l’angoscia, il vuoto, il buio, ma una presenza infinita dello spirito; non cieca esistenza della materia, ma spazio in cui ogni cosa è determinata, cioè ha la sua causa. Così il passaggio dal cosmico scientifico e tecnologico della sperimentazione umana al cosmico luminoso e armonico della incarnazione divina, avviene nell’opera di Notari attraverso un’esperienza di pittura religiosa; che ha inizio nel 1967 e occupa anche tutto il 1968.

    Notari non si spaventa di affrontare i temi più impensabili, anacronistici potrebbe dire chi misura il tempo sul quadrante più superficiale dei giorni; ma nel suo mondo fantastico, in cui ha luogo la chiara allucinazione di un’esistenza che conosce un altro tempo, quei temi sono necessarie fondazioni della realtà. Così egli concepisce il tentativo coraggioso, pieno di rischi e di incertezze, di creare una nuova iconografia, che renda ancora possibile un’immagine religiosa. Il sacro nel nostro tempo è andato incontro a una completa trasformazione: o ha subito l’urto di processi dissacranti, cioè si è distrutto, o è stato trasferito su fattori terrestri e umani non cambiando natura ma figura, o si è rifugiato in zone defilate di sopravvivenza, ombre residue che non conoscono più il senso della vita. Notari tenta un recupero aperto, facendo sbocciare la sua immagine dal terreno più ambiguo della contemporaneità.

    L’ambiente denso, gremito, proliferante di figure prive di definizione, si rattrappisce, lentamente si svuota; la popolazione folle, misteriosa, affacciata alla ribalta dell’immagine in una stupita, e quasi inconsapevole, presenza, lentamente si ritrae; ogni figura rientra in una forma ben definita che la determina e la isola; lo spazio si fa lucido, teso, netto, riempito da una luce uguale in ogni punto. Il rapporto tra spazio e luce raggiunge ormai la soluzione verso la quale era fin dall’inizio avviato; diventano, spazio e luce, funzioni uno dell’altro e, oltre che entrare nella loro realtà simbolica, si pongono come luogo degli eventi spirituali e cosmici. Lo spazio in pittura non è una categoria generale, un elemento formale o di struttura teoricamente definibile come costituzione a priori; è invece una entità specifica di ogni pittore, fondamento della individualità psichica e poetica del suo mondo. In Notari infatti troviamo l’invenzione di uno spazio inscindibile dalla sua persona artistica e dai significati che la sua opera enuncia; esso si caratterizza per non esser realisticamente concreto, né astratto; ma uno spazio fantastico, una emanazione spirituale e luminosa, che rende plausibile la presenza di figure e simboli di vita e di religione. Tutti questi elementi ne indicherebbero una costituzione irrazionale, e invece, altra sua caratteristica, è tutto teso da una razionalità allucinata.

    Questo spazio, che l’opera precedente di Notari lasciava intendere come una possibilità, come una intuizione non ancora realizzata pienamente, diventa tutto esplicato nel lavoro degli ultimi tre anni. Le figure, altro elemento imprescindibile, costituzionale della pittura di Notari (che però non ha a che fare con la “nuova figurazione”, tanto meno col “nuovo racconto”), emergono ora, fin dall’inizio del 1967, con una aggettivazione, che corrisponde al clima prevalente della pittura di questi anni, e che per Notari è il naturale sbocco di un lungo svolgimento. Il pittore ha trovato una grande libertà. Le opere del ’67, la cui intenzione religiosa è indicata anche dai titoli, La Trinità, Reliquiario, Processo religioso, Processo di adorazione, L’ora santa, presentano poche grandi figure, immobili, fisse in una divina indifferenza, incombenti nella loro frontalità, come le icone di una condizione umana che, attraverso un nuovo rapporto col divino, tenta di ritrovare il suo consistere, al di là delle “atomizzazioni” della vita e della coscienza.

    La rottura del limite tradizionale della cornice, che si adegua ai nuovi formati delle tele, corrisponde al destino dell’opera, che non è più quello, borghese, di un godimento estetico privato, ma di stimolo pubblico al ricupero di una nuova meditazione spirituale. Ora i formati variano di continuo per corrispondere al senso profondo, a ciò che è la fondazione d’immagine nell’opera: così alcune opere sono divise in due o tre parti, presentando ogni parte una sua misura e quindi un suo spazio specifico, ma partecipando dell’unità spaziale dell’opera, creata, per esempio, dai raggi del sole che si continuano in tutti i frammenti; altra volta il formato stretto e allungato verso l’alto segue il crescere leggero, misterioso e potente di una “stele” di uccelli, come un volo trionfante verso la profondità luminosa del cielo. Siamo già con queste opere dentro l’ultimo periodo del lavoro di Notari, tutto svolto nel 1968 e 1969: alla incombenza da immagine sacra del primo gruppo di opere religiose, succede una più precisa e ampia conquista dello spazio, un arricchimento dell’immagine nelle sue figure fondamentali, della vita nascente e della contemplazione mistica, che, cresciute in parallelo, ora diventano inscindibili, facendo da legante il tema cosmico.

    La forma rotonda diventa sempre più frequente, moltiplicandosi nell’opera, come disco, come occhio, come sfera liscia e convessa o solcata dalla mobile iridazione delle linee ondulate, assumendo la funzione simbolica nella sua completezza. Appaiono i simboli della vita: l’uovo, prima come forma intangibile, perfetta e originaria che racchiude misteriosamente ogni possibilità di germinazione, custodito nello spazio stretto e profondo della teca preziosa di un reliquiario, poi infranto, non più limitato da uno spazio ristretto, ma rivolto verso l’alto, verso lo spazio che non finisce, vaso aperto entro cui comincia ad agitarsi il processo della crescita; e la rosa, vita che si schiude e simbolo mistico, fiore di luce. Appaiono anche gli astri: il sole, la luna e, nelle ultime opere, le stelle; ma assunti, oltre che come simboli, nella loro più generale situazione di elementi cosmici. Il cosmo come ordine contrapposto al caos come disordine, secondo l’insegnamento di Klee. Ma il cosmico diventa ora soprattutto l’elemento di passaggio tra il terreno e il divino, tra il buio della terra e la luce del cielo, l’opacità della vita e la trasparenza dell’assoluto. Queste opere posseggono una strana e incontaminata bellezza, contengono ed emettono una pacificazione, come se si potesse entrare, a guardarle, nella luce senza origine e senza sostanza della totalità, nel “rosa della rosa”, e si potesse fare per un momento, nell’allucinazione dello sguardo, pur chiusi nel nostro terrestre frammento di tempo, l’esperienza dell’infinito.

 

Roberto Tassi, Notari. 10 tavole a colori 1968-1970, Edizioni Galleria delle Ore, Milano 1970.

 

 

La solarità è il tema fondamentale da cui Notari è stato sempre attratto: solarità come luce-elemento delle origini, come principio del reale, che si attua nei dipinti in toni accesi. Non si tratta di un tema naturalistico: a questo pittore meditativo, introflesso, in apparenza timido ma deciso e ostinato, interessa il tema della nascita, del sorgere della vita, e lo stupore delle creature che si aprono e sono inondate di luce. Da qui, in molti suoi dipinti, il modulo ciclico — anche se con incastri in vari spazi — alle cui origini è l’elemento ovoidale, il mistero della vita che si sviluppa segreta. Più che un dialogo con gli oggetti naturali, questi motivi diventano quindi un discorso all’interno; e si può capire come Notari inclini verso certo surrealismo, non come gioco o pretesto Iudico, ma come necessità di indagine interiore, come strappo, quasi, dalle zone dell’inconscio, ai limiti del sogno. Proprio in certi fogli, non soltanto di oggi ma di dieci anni fa, Notari si affida ai segni linearistici quasi automatici, su fondi accesi di arancione e di giallo, che sembrano uscire dai margini. Sono viaggi all’interno, fluidi come l’esistenza in divenire. Il principio della nascita lo ha fatto poi volgere, per alcuni anni, verso effetti più viscerali, in un ordine che per autocontrollo non escludeva la simmetria, pur restando evidente il motivo ciclico, legato al concetto di nascita. Questi effetti viscerali non erano però il fine della sua ricerca: soltanto l’occasione per suggerire appunto l’interno sviluppo della vita. Ma da alcuni anni si è accorto che per esprimere questi suoi temi non occorre insistere sul viscerale: con accensioni cromatiche e fughe linearistiche di analogie musicali, ormai esprime questo divenire esistenziale in spazi più liberi. Basta leggere alcuni titoli della sua attività grafica recente: Processo aperto, Ora stellare, Ora solare, Pensieri aperti, Dentro di noi, Iridazione a due momenti, Riflessione. Il colore è diventato più vario: dall’argento all’oro, alle diverse tonalità dei rossi, dei gialli, degli arancioni; il segno lineare è ancora una fuga, ma con altri incontri, con incastri, e i motivi della nascita risultano chiari nei moduli ciclici, quasi nidi spaziali, accesi. Romano Notari, che seguo ormai da molti anni, fin dalla prima mostra al Naviglio — quando Carlo Cardazzo con intuito generoso aveva già visto in lui, poco più che adolescente, un autentico pittore — comunica nei dipinti e nei disegni questo suo mondo di origini, con felicità di segno e di colore acre, tattile quasi: in un discorso, dunque, che mentre si sviluppa da necessità interna, si apre visionario all’esterno, alla luce, alla solarità, come sogno lirico.

 

Guido Ballo, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria L’Incontro, Milano, dal 16 maggio 1973.

 

 

Cogliere il mistero dell’universo partendo dall’occhio di un uccello, dalla sua rotondità attonita; decifrarne il messaggio d’amore che si propaga a cerchi, allargandosi da quel centro focale in anelli sempre più dilatati: dall’occhio all’appallata piumosità da cui si dischiude, fino al giro dell’orizzonte e alla sfera del sole, dove la forza crescente di quell’espansione, che è vorticante energia positiva, sale al calar bianco della fusione cosmica. Si dice occhio, cerchio, anello, palla, giro, sfera per tradurre un linguaggio verbale il segno avvolgente della matita o del pennello, il modulo informatore a cui ubbidisce; mentre fuoco, sole, calore traslitterano l’accensione cromatica, scandita nelle gamme predominanti, quasi esclusive, dei gialli e dei rossi, dai teneramente acerbi ai più estuosi, ai più densi. E si vorrebbe quanto meno suggerire la ragione essenziale del far pittura di Romano Notari, quella per cui, come ogni autentico artista, sente la ineluttabilità del suo dipingere: che è poi il bisogno prima che di comunicare agli altri, di interrogarsi dentro, d’inseguire la sua immagine interpretativa delle cose.

    Anche nell’indigenza della parafrasi non dovrebbe sfuggire a nessuno, in una situazione dominante, profeticamente o passivamente corriva ed enunciati millenaristici, l’eccezionalità del messaggio di questo pittore silenzioso e appartato: così carico di significati amorosamente vitali, da ricordare (non certo per mere suggestioni topografiche che Notari, nato a Foligno, è sempre vissuto presso la fertile costa di Assisi anmi di Ascesi, a due passi dai luoghi deputati della leggenda dipinta da Giotto, che è stato il primo libro, il sillabario stesso dove ha imparato a leggere l’incanto della vita. E chi sa che come Francesco nella predica agli uccelli, anch’egli sappia parlare, in quel suo eremo di Campello, presso le Fonti del Clitunno, ai falchetti e ai corvi della grande voliera che tiene fuori dell’uscio di casa? Ma un’altra cosa è subito certa, a chi guarda ai suoi fogli colorati, alle sue tele: che alla peculiarità del messaggio corrisponde la non meno sorprendente eccezionalità del codice in cui è trascritto, sicché all’osservatore anche più avvertito non è facile trovarne alcuno, tra i codici formali già messi in circolazione, che lo aiuti a decifrarlo, e la memoria si costringe sterilmente a frugare nei propri archivi esperienze o nomi da convocare, se non altro per una vaga parentela.

    Respinta dal coté naturalistico (anche dove il collage potrebbe ingannare come una citazione diretta dal mondo dell’oggettività), non meno che dal coté astrattista (benché piani e volumi si organizzino in una sorvegliata sintassi), la lingua, come la semantica, di Notari non si colloca neppure sotto l’etichetta dei procedimenti tipici del surrealismo e delle altre esperienze che gli si avvicinano. Segni e colori non parlano di un’operazione onirica, e neppure dell’automatismo del subconscio dalle cui oscure profondità emergano simboli antelucani, misteriosamente intrisi dell’orrore magico e minaccioso dell’indecifrabilità; dicono invece di una fervida natura visionaria che, come tale, è dotata di un’ottica lucidissima e di una attività contemplativa che, alla stregua di ogni autentica contemplazione, è un itinerario mentale, percorso non nel sonno ma nella veglia, attento a sorvegliare ogni singolo passaggio e a verificarne la funzionalità. E come ogni itinerarium mentis in Deum, si organizza in una propria cosmogonia, ingenua o coltissima, sempre però fondata su un’intuizione primaria che attinge alle radici stesse dell’esistenza, così anche quello di Notari procede a strutturare una visione globale dell’universo, dove in una parte più o meno altrove, ma dovunque, penetra e risplende la luce dell’Amore. E così, di metamorfosi in metamorfosi, o, per usare una parola cara a lui, di processo in processo, gli uccelli sono foglie al vento, disperse o raccolte in affettuoso colloquio tra loro, e gli uccelli-foglie sono petali di rose, o chiuse a boccio, in forma di uovo (quasi la cellula generatrice della vita, la particola germinale del tutto), o aperte a bere la solarità del cielo, a penetrarsi della luce che ne piove: e nulla, in questo magma incandescente, ha una sua forma fissa, cristallizzata una volta per sempre come in un pianeta raffreddato, ma continuamente partecipa dell’energia primordiale che trasforma ogni cosa, accomunata alle altre e insieme misteriosa nella sua molteplicità in divenire.

    Sorvegliano, per lo più benevoli, sguardi di Presenze (uccelli-foglie-petali anch’esse), garanti di una armonia cui presiedono tacitamente: cori di misteriosi cherubini, troni, dominazioni? Se fosse lecito accostare una natura, un esperienza (non si dice una pittura, una tecnica pittorica) naïve a un’altra che al contrario è tutta imbevuta di uno sterminato patrimonio culturale, le pagine di Notari si vedrebbero bene come illustrazioni dei passi in cui la poesia del Paradiso dantesco si fa più strepitosamente inventiva nella resa di un mondo di pura luce e di intenso calore.

 

Dante Isella, Romano Notari, Edizioni Pantarei, Lugano 1974.

 

 

(...) Notari pone come nucleo della sua ricerca la luce solare, dalle riverberazioni della quale scaturisce un visionarismo chiaramente discendente da una sorta di misticismo del carnale, come attestano sia le sue opere di vibratile lirismo organico, eseguite intorno alla metà degli anni ’60, e sia il suo cromatismo roseo in cui si avverte una disposizione al centro della carne, cioè una disposizione ai pallori degli organi interni del corpo. Anzi, nelle opere precedenti è ancora evidente un simbolismo germinale che nasce probabilmente da suggestioni di un organicismo fetale immaginato in uno spiazzamento spaziale, quasi nella sua ricerca coscienziale Notari abbia in un primo momento identificato il ventre femminile fecondato come umbilicus cosmico (il che spiegherebbe una certa presenza di ovuli e di certi cordoni ombelicali in opere del ’66 e la coincidenza orbitale degli occhi di quegli uccelli che Arcangeli ebbe a definire “gufi” con quelli del feto ai primi mesi di vita). Nella sua risposta agli entusiasmi per le conquiste spaziali, viste inconsciamente da Notari come peccati di presunzione dell’uomo contro l’ordine costituito divino, Notari ebbe a scrivere per una sua mostra: “Io ascolto i moti della coscienza dell’uomo, i loro sforzi, le loro meraviglie e ne ritraggo non il missile che lo ha reso grande ma il messaggio che lo rese felice, l’impulso che lo ha trasformato nei suoi processi di conquista. Credo nella bellezza del nostro e degli altri mondi: c’è la luce, la speranza, la verginità che ci danno piena fiducia per una nuova pittura di visione”. Si noti come quel termine di “verginità”, tanto caro alla liturgia cattolica, in Notari apra ambiguamente anche su orizzonti di castigato erotismo (e, allora, sulla base di quanto sopra detto, diviene chiaro che i riferimenti ai pallori rosati degli organi interni va inteso anche in direzione vaginale: del resto la rosa cui spesso rimandano certe immagini di Notari, è stata più volte assunta come figura emblematica del sesso femminile) a conferma che ogni forma di misticismo contiene una sublimazione di pensieri sessuali.

    Il mistero della nascita nel senso di “venire alla luce” è la molla, dunque, del particolare misticismo che il pittore stesso dichiarava in una lettera scrittami nell’agosto del ’72, quando, per chiarire il valore delle sue immagini “tessute di luce, ma vere ed essenziali nel loro simbolismo che poteva dare una misura umana dell’infinito della vita umana e dell’aldilà, come principio di fede e di ordine che regge l’universo”, sottolineava: “Scavo in profondità alla ricerca del bene, della verità, che è dentro di noi per dimostrare che il ritorno ad una nuova meditazione, ad un nuovo ordine nel nostro ricco potenziale umano è possibile, e alla evidenziazione dei principi che sono fondamentali e che si vorrebbero inaridire del loro significato; come ordine, armonia, unità, perfezione. Tento di dare con la pittura e l’umiltà l’impulso a questa salvezza”. Ed è subito evidente come nel suo sforzo di dare forma ad una siffatta concezione intrisa di spiritualismo, Notari che, seppur visionario è fortemente legato alla figurazione, pur nella labilità trasparente e luminosa di essa non ha saputo nè potuto far altro che ricorrere, per esprimere la sua concezione, alle proprie esperienze del carnale interno, le quali meglio si prestavano al suo simbolismo cosmico-genetico, ponendolo al polo opposto di quello di Fieschi, attestato, come abbiamo visto, non sulla nascita, non sulla crescita, non sulla formazione, ma sulla morte, sulla corruzione e sulla deformazione del carnale.

    Se Notari dunque è all’alfa, Fieschi è all’omega. La pittura di Notari esula, anche se vi permangono segni cristiani, (si veda il motivo spesso ricorrente della croce come supporto delle proliferazioni ornitologico-fetali), dall’ingorgo cattolico e si rifà piuttosto ad una concezione spiritualistica classicheggiante, quasi plotiniana, che ben presto, nel suo far progredire il suo discorso sulla luce, è addirittura giunto a ricongiunzioni con le antiche religioni solari. Senza ripetere per esteso le acute e dotte osservazioni sulla “ricchissima fenomenologia del rotondo”, fatte a suo tempo da Roberto Tassi, il quale tra l’altro aveva già parlato di “immagine come formazione di vita che nasce”, peraltro ignorandone i sottili risvolti erotici, va ribadito che la linea curva è uno degli elementi di fondo del discorso di Notari . Essa presto si è conchiusa in circolarità che ora è occhio, ora sfera, ora cerchio solare in una ascesi della visione impostata sulla luce-colore e sulla luce-spazio, la prima intesa da Notari come possibile rappresentazione del colore della coscienza, (e quindi dell’anima); la seconda come suo spazio atmosferico di impalpabile trasparenza in cui fluttuano i fantasmi del proprio misticismo di palpitante organicismo.

    Ma gli andamenti della linea curva in Notari assumono forme ellittiche, oltrechè spiraliche, com’è logico in un visionarismo dinamico come il suo. L’ellissi infatti è, al contrario del cerchio che riposa in sè, forma dinamica e allo stesso tempo cosmica come Keplero insegna sul piano astronomico e come l’uovo dimostra sul piano biologico (del resto il motivo dell’uovo cosmogonico è molto diffuso nelle mitologie di vari popoli). Tra onirico e contemplativo, il misticismo di Notari tende alla cosmicità dell’abbraccio di luce, dove l’uovo diviene simbolo dell’origine cosmica e l’uccello, oltre ai suoi riferimenti legati alla nascita, come già visto, si fa allegoria del volo mistico. E non stupisca la simbologia ornitologica in Notari; essa, in realtà, forse a insaputa del pittore si ricollega a tutta una tradizione di culti solari nei quali sono proprio alcuni uccelli, per complesse ragioni, non ultima quella della loro capacità di volare nel cielo, appunto come il Sole ad essere identificati col Sole o visti come suoi sostituti (per esempio nella mitologia nord-americana è il corvo, in quella artica (nord-asiatica è l’aquila). In realtà il misticismo di Notari scaturisce da una precisa vertigine dell’essere che s’esplica in curve e circonvoluzioni attraverso cui Notari confessa la sua aspirazione al sublime, al sommo apice dell’essere in un gorgo lirico, che tuttavia, va ribadito, non riesce a liberarsi della esperienza della fisicità.

    Il visionarismo di Notari si basa su una specie di “allucinazioni ipnagogiche” nelle quali, oltre l’apporto psichico, c’è anche quello dell’eccitazione interoculare della retina da cui s’è accennato da parte di alcuni studiosi dell’origine dei sogni. Tali “allucinazioni ipnagogiche” Notari le ottiene arretrando il suo punto di vista, per cui “vede” non più con la normale funzione ottica, ma con quella che già ebbi modo di definire retroottica, riferendomi a quello strato visivo che è alla base o al di qua dell’ottica e del quale si possono percepire solo gli elementi fondamentali e in primo luogo la sensazione luminosa. Questo spiega perchè tutta la pittura di Notari è una sequenza di fantasmagorie luminose, di coaguli circolari di occhi e derivati. In Notari l’occhio giunge a una percezione di immagini instabili, ma continuamente ritornanti, in una fluttuazione visiva come avviene quando la vista rimane abbagliata ad una fonte troppo luminosa come il Sole che, annichilendone le possibilità proiettive sulla retina, blocca questa in se stessa fino ad una sorta di percezione di sé, ossia delle immagini che permangono in se stessa. Pertanto la pittura di Notari è anche l’autopercezione dell’occhio, in quanto organo di visione che vede i propri impulsi.

    A tale autopercezione Notari giunge per processi mentali, arretrando la sua posizione visuale e ancorandola alla retroottica, appunto, che è ancora un tramite di visione fisica, ma ancora incapace di dare immagini definite. Ne scaturisce una sorta di limbo della visione, in cui il visionarismo di Notari trova una atmosfera adeguata per quella possibile instabilità tra apparizione e apparenza, tra simbolo e modulo, tra abbacinamento visivo e percezione coscienziale che negli ultimi tempi è giunta a riverberazioni della trasparenza con risultati da multiottica ottenuta in un’unione di immagini viste in trasparenza fino a cogliere le trame della loro filigrana. Ed è, anzi, proprio in queste ultime opere che compare l’immagine del coccodrillo, adorato già dagli Egizi, la cui religione, come ognun sa, era solare (ma non va dimenticato che il coccodrillo, che imbalsamato si trova ancora appeso in aria in alcune chiese cristiane, anche in Italia, è un simbolo esoterico di complessi significati mistici). Notari insomma, procede nella sua tematica solare che è basata su una identificazione del Sole con Dio, ossia con la figura del dio-padre. Si fa, allora, evidente che il suo insistere sulla nascita avveniva per complesse motivazioni psicologiche che solo in seguito si sono precisate non come desiderio di paternità, ma come nostalgia del padre, del padre buono, ovviamente, per un’esigenza diametralmente opposta a quella di Biasi che, come abbiamo visto, ha a lungo esorcizzato la figura del padre cattivo, donde l’origine del suo demonismo burlescamente napoletano. La vertigine dell’essere, perciò, viene riprodotta dall’assillo di tale ricerca che, nonostante alcuni momenti di visionarismo positivo, per il quale il pittore è riuscito anche a cogliere le sembianze del Padre (si veda la comparsa del volto in Temporale del 1972), si perde in un visionarismo a più spessori di abbandoni lirici, in cui c’è una insistita interrogazione sulle proprie origini cosmiche e quindi una volontà di autorispecchiamento (Notari non ha trascurato il tema dell’autoritratto, attuato nel suo caratteristico stile). Il concetto della specularità, anzi, si fa più insistente nelle ultime opere, in cui la trasparenza viene complicata da nuove forme quadrangolari che entrano in dialettico rapporto con le forme curve e circolari. Il cosmo si fa spazio della luce a più piani sovrapposti di spettrale trasparenza, tra gli interstizi del quale Notari continua il suo viaggio verso il sole, alla ricerca del padre buono perduto.

 

Giorgio Di Genova, Le realtà del fantastico. L’arte fantastica italiana nel dopoguerra, Editori Riuniti, Roma 1975.

 

 

L’opera di Romano Notari è l’esempio, quasi unico in Italia, di una pittura visionaria, che nasce da una contemplazione mistica del mondo; in essa ha luogo una lenta, oscura, emergenza dello spirituale. Ma non si tratta di vera arte religiosa, almeno non nel significato più comune; piuttosto di un senso di religiosità indeterminato, ovunque diffuso, perfino ambiguo; lo stesso che si può trovare, come un deposito temporale, umano e terrestre, nelle antiche pietre dell’Umbria e nella luce che invade le facciate bianche delle sue chiese. L’immagine di Notari si manifesta per figure simboliche, di cui la fondamentale, sicuramente archetipa, è quella dell’uccello. Sempre presente in tutta l’opera, fin dalle sue origini, con una continuità ossessiva, la figura dell’uccello subisce molte modificazioni e metamorfosi, ma conserva, in ogni successiva incarnazione, un significato aereo, cosmico e, in fondo, divino; gli occhi degli uccelli, dilatati e fissi, mantengono la suprema indifferenza degli esseri divini; dietro di loro si distende una parete di mistero: questi esseri sono i messaggeri dell’aria, gli angeli, le presenze che nascono nell’ora del meriggio, nel culmine della luce e della stasi, sono gli «illuminanti» e abitano uno spazio mistico. La singolarità del lavoro di Notari sta infatti soprattutto nel tentativo di fondare uno spazio mistico; tentativo raro, di cui è difficile trovare altri esempi nel campo dell’arte contemporanea. Spazio mistico è uno spazio privo di ogni accidente o fenomeno naturale, privo di ombre e di chiaroscuri, ma tutto esposto alla luce (poiché la luce ne è la sostanza stessa fino a un punto che spazio e luce coincidono), abitato solo dalle figure della visione; uno spazio senza riscontro con la realtà, rigidamente chiuso, ma nello stesso tempo aperto sull’infinito, in cui non hanno luogo i valori prospettici ma ogni cosa si dispone secondo il suo peso e significato spirituale, in cui invece si producono fenomeni di rifrazione, di ritmo e di simmetria; è lo spazio in cui coincidono l’intellettuale e l’irrazionale, il ragionamento e l’estasi, il rigore e l’abbandono. Luigi Carluccio, con le sue sensibili antenne per simili riferimenti culturali, ha fatto per primo, nel 1974, a proposito di Notari, il nome di Blake.

    Queste ultime opere avvalorano ancor più quel richiamo, ma non tanto per la formazione esteriore dello stile e delle fantasie, quanto per il loro significato profondo. Le presenze degli «illuminanti» e dei «funghi d’amore», che occupano lo spazio con una simmetria rigorosa, di colore, di luce e di forme, solo contraddetta, quasi nascostamente nei particolari, dal movimento di una testa di uccello o dalla misura diversa dei quadrati di luce; che si rimandano i riflessi, le minime variazioni di tono e gli influssi «sacrali» da un angolo all’altro, dall’uno all’altro riquadro o «momento» da cui a volte son composte le immagini; queste presenze, dico, stanno sotto il segno della «fearful simmetry». Non è infatti la loro simmetria fonte di una sottile ossessione, di un’inquietudine che trascende la sfera delle fantasie comuni, delle fantasie notturne, per rivelare la paura di ciò che, al di là, è immutabile e nascosto? Un simile uso della simmetria non è solo patrimonio di Blake, ma di tutta la mistica romantica, di Ruhge sempre e spesso di Friedrich, e da questa risale fino alla sua origine nella figurazione medioevale. Tale arcaismo di struttura acquista però, in queste immagini di Notari, una originalità e modernità che lo distaccano da ogni regola del passato e lo portano a farsi tramite, con uno stupendo anacronismo, in un mondo che ne è privo, di regole nuovamente religiose, nuovamente «illuminanti». La conquista di uno spazio mistico è quindi il fine della ricerca di Notari; solo a guardarli da questo punto di vista cominceranno a sciogliersi gli apparenti ingorghi e oscurità di una pittura che è invece molto chiara e conseguente Notari vive in una casa vicino a quelle che una volta erano le fonti del Clitunno, tra Foligno e Spoleto, nel cuore dell’Umbria. É da questi luoghi che nasce la sua pittura: i paesi arroccati sulle cime delle colline, le pietre rosa e gialle di cui son fatte le case di Trevi, di Spello, di Assisi; le facciate bianche, nella distanza, dei palazzi, delle chiese, quando la luce batte piena e discreta sulle loro superfici omogenee, prive di ogni movimento decorativo; la spiritualità che sale dagli antichi vicoli, dalle strade intatte; e dentro le chiese, in oratori sperduti sulle colline, i quadri e gli affreschi che sul finire del Quattrocento dipingeva un artista poco conosciuto come lo Spagna, nei quali brillano bianche vesti di santi e di prelati, rosa di muri, e delicati trapassi di tono dappertutto. C’è un’Umbria bianca, gialla, rosa, di luce e pietre, e nel grande quadro di Notari intitolato «Ultim’ora», tra i più profondi che egli ha dipinto negli ultimi anni, quest’Umbria trova la sua immagine moderna, spirituale e fantastica: la visionarietà si accompagna a un rapporto più stretto col reale, l’esperienza mistica a quella umana, le immagini stravolte e sacre degli uccelli a un cielo diviso nei suoi diversi gironi di valori, ma acceso da sprazzi di luce atmosferica.

 

Roberto Tassi, Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria del Correggio, Parma, 2 aprile-2 maggio 1977.

 

 

Notari è una personalità indubbiamente singolare nel panorama della nostra arte. Come ben osserva Roberto Tassi che ne presenta questa personale alla Margherita “la sua opera è un esempio quasi unico in Italia di una pittura visionaria che nasce da una contemplazione mistica del mondo”. Notari proviene da un disegno simbolista con componenti liberty e surreali nel quale si avverte, alla base, la lezione determinante di Blake, mentre nella pittura il dilagare vivificante di un colore-luce simbolicamente accentrato sul giallo e sul rosso, lo fa quasi giungere alla non figurazione. Pur partendo dalla vasta frontiera del Romanticismo ed optando per la visione interna, il pittore non rinuncia del tutto a dare alle sue complesse esperienze psichiche un ordine metodologico. Voglio dire cioè che sebbene non razionale (la ragione è sempre fonte dialettica di dubbi e Notari è invece piuttosto un temperamento fideistico) quest’opera si basa sull’assunzione di precise regole di ritmo espresse in un traliccio compositivo di coordinate verticali: dal gotico a Mondrian. Ed è questo sistema metrico non aperto ma chiuso, appunto dogmatico, che dà a chi guarda un dipinto di Notari un pò la sensazione di entrare in un’ antica chiesa, di ascoltare la musica di Bach, di udire le intatte parole di un credo che è alla pari sacro ed umano.

 

Lorenza Trucchi, Notari alla Margherita, in “Momento Sera”, Roma, 15 maggio 1977.

 

 

Che nell’opera di Romano Notari dovesse venire il punto in cui il tema dell’ amore, preso il sopravvento su ogni altro, si facesse centrale e unico dentro gli spazi della luce e i fantasmi della visione, era forse facile prevederlo. Tanto quell’opera è sempre stata, fin dai suoi inizi, e sotto le spoglie, i simboli, le metafore e le metamorfosi di tempo in tempo modificate e varianti, un canto e una glorificazione dell’ amore. Ogni cosa e ogni momento dell’opera era volta a tal fine: la luce, fondamento e sostanza dell’immagine, nata dalle profondità sconosciute della vita come nasce ogni giorno dalle profondità dell’universo, tutto avvolgendo e penetrando, non naturale ma soprannaturale; il senso del caldo gravante sull’ora, mistero meridiano, protettore della unione e del germoglio; il colore che, dalla candidezza alla vampa, imbianca, dora e arrossa; lo spazio infine, luogo della contemplazione e dell’evento mistico. Con le nuove opere quell’amorosa volontà che si serviva di tali coperture e segnali, è diventata il tema palese, il mistero scopertamente indagato, la realtà dell’immagine. Niente può darsi che sia più lontano dai tempi in cui ci è toccato vivere, di questo.. Ma chi dirà se sotterranei, oscuri tramiti non uniscano invece, più strettamente di ogni diretto rapporto, di ogni chiara mimesi, “questo” ai tempi, e che quando i giochi saranno completamente giocati, quando si saranno, come sempre, capovolti i valori, i giudizi e le parti, non rimanga “questo” come testimonianza più vera, più immediata e cosciente delle tante moribonde attualità, delle tante agonizzanti adesioni?

    L’ultimo periodo dell’opera di Notari ha inizio nel 1975 con tre piccole tempere intitolate “Monumento d’amore”, in cui è fissata l’idea prima, ancora confusa e appena difficilmente districata, del tema. Poi nell’anno che va dal febbraio del 1976 al febbraio del 1977, in un fervore, tra frenetico e allucinato, di lavoro, nascono le venti opere del ciclo intitolato “Monumento a Leda-cigno”, dipinte a tempera e in grande dimensione, compiute in sé e nell’insieme, che espongono nei suoi veri aspetti il tema. Dal marzo 1977 a oggi, marzo 1978, in una nuova violenta tensione di lavoro, sono create le “variazioni sul tema”, una lunga serie di opere, per lo più ad olio, raggruppate intorno ad alcuni nuclei di idee, che derivano, sviluppandola e modificandola, dall’idea primaria del congiungimento “Leda-cigno”, e che trovano i nuovi titoli di “Amore solare”, “Amore trasparente”, “Metamorfosi d’amore”, “Canto d’amore”. In questa mostra vengono presentate due delle grandi tempere del ciclo “Monumento a Leda-cigno”, la I opera e la XVII opera, e una scelta il più possibile completa della “variazioni”.

    Nelle venti opere del ciclo principale, che sono aspetti e situazioni diverse di un unico concetto, Notari va subito al centro di verità dell’amore terreno, rappresentandolo nel rapporto di congiunzione. In questo rapporto c’è qualcosa oltre il momento erotico e della creazione di vita, qualcosa sempre presente in tutta l’opera di Notari, ed è l’elemento dell’unità, del rapporto che lega la coppia nella presenza amorosa, qui portato al culmine della sua tensione unificante. Coloro che avevano visto elementi erotici nelle precedenti opere, ora sono sgominati sul loro stesso campo, poiché Notari rappresenta senza erotismo l’atto centrale dell’erotismo. Non che venga negato il rapporto fisico, anzi viene visualizzato, ma, libero da ogni sua scoria esistenziale per la luce che l’avvolge, per il colore irreale che lo esalta, per lo spazio mistico in cui avviene, per l’atmosfera visionaria in cui è immerso, per le ali come presenze angeliche che lo proteggono, si riduce, anzi si dilata ed esalta, alla sua suprema essenza amorosa. Qui è il nucleo di un mistero che questo ciclo espone e indaga, il nucleo oscuro, profondo, immerso giù nelle radici dell’esistenza, dove si forma la vita: il punto in cui amore terreno e amore spirituale coincidono. Notari ha scelto il mito di Leda perché è quello in cui il rapporto amoroso avviene con un uccello Dio.

    L’uccello è il protagonista di tutta la pittura di Notari, anzi proprio di ogni sua opera, fin dai primissimi disegni del suo primo fare una figura su un foglio: ed ha assunto via via vari aspetti, varie “presenze”, varie incarnazioni. Ho cercato altrove di penetrare in parte nella complessa rosa di significati di cui l’uccello è in questa pittura, portatore: uccello reale, uccello come “centro di cosmicità”, come presenza angelica, come simbolo umano, come focolaio di vita, come adorato e adorante, come “illuminante”. In questo ciclo l’uccello-cigno è tutte queste cose, ma è anche soprattutto il punto della metamorfosi del divino nel terrestre, il terrestre che espone la sua interiorità divina, è la presenza del Dio nel rapporto amoroso; e non si distingue dalla donna che è la stessa cosa nella sua forma accogliente, nella sua sublimazione di vita. Ma l’uccello è anche Notari stesso, una identificazione piuttosto che un autoritratto, l’ordinatore della creazione, l’assistente all’opera, al compiersi dell’opera, fino ad un punto che potrebbe portane ad una interpretazione alchemica.

    Finalmente così, in un ciclo che anche per questo è un culmine dell’opera di Notari, la luce, origine stessa di ogni sua possibilità espressiva, coincide con l’amore; e, precipitando dalle profondità del cielo solare, fluttuando sulla terra, invadendo e creando ogni fantasma, ogni figura e ogni spazio, arroventando il mistero mistico della stanza dove primamente avviene la glorificazione del “Monumento a Ledacigno”, diffonde ovunque, nella trasparenza che è la caratteristica della sua stessa materia, l’unità amorosa. L’amore è trasparente, apparente al di là.

 

Roberto Tassi, Amori solari, in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Bambaia Galleria d'Arte, Busto Arsizio, 7-29 ottobre 1978.

 

 

La simpatia tra due cose è uno scambio tanto più silenzioso quanto più è profondo. Perchè altri possano entrare nel cerchio della mia profonda simpatia per l’arte di Romano Notari devo trovare tuttavia delle parole adatte a rendere chiare le motivazioni più semplici e più spontanee della mia predilezione. L’aspetto dell’arte di Notari che mi pare meglio la qualifichi, e che più mi affascina, è senza dubbio l’aspetto di arcana solitudine ch’essa riverbera. E’ una cosa che sta a parte, come del resto se ne sta da parte lui stesso, Notari che non fa gruppo, non si mescola, non si lascia limare, ottundere, dagli attriti di orbite equivoche e di ambigui rapporti. Vive infatti isolato nella casa studio di Campello sul Clitunno, un luogo appena sfiorato dai rumori del mondo, e la sua arte è isolata, procede voglio dire presente e insieme lontana. Lontanissimo astro anzi, e per più versi: perchè la luce che sa giungere sino a noi è una luce antica, la luce della bellezza e della fede e perchè nella sua apparente dolcezza è cosìbrillante e viva da poter attraversare tutte le distanze, nel senso del tempo e nel senso dello spazio. Solitudine, cioè espressione solitaria, anche come originalità ma così poco vistosa, questa, così poco enfatizzata ed eccitata, così invece flessibile e fluente, accettabile anche quando ci si rende conto che dentro i diversi digradanti aloni d’una luce che dobbiamo accogliere come un lume dello spirito, persuasivo e persistente, le figure che il disegno di Notari viene evocando, e accoppia, intreccia, innesta, incastra, sovrappone con un suo abilissimo giuoco occulto, stanno a mezza strada tra un evidente richiamo del reale ed un altrettanto evidente rifiuto del reale. Sono come messaggeri misteriosi, e spettatori, e testimoni non meno misteriosi di eventi ancora più lontani e più misteriosi.

    A volte come in un giuoco di specchi le loro figure possono sembrare un riflesso di altre figure, molto più lontane; figure proiettate su uno schermo a noi visibile da un lume che è situato tra le quinte del tempo e dello spazio, che non è altro che il punto focale, il punto di ribaltamento per cui la solitudine diventa a poco a poco l’infinito. Il primo approccio all’opera pittorica di Romano Notari consente appunto di dire che l’infinito è il luogo in cui le immagini che lui ci offre si realizzano; ma come uno spettro, come un miraggio d’altri luoghi e di altri tempi, come un riverbero di altri infiniti. Se posso indicare una seconda sensazione molto precisa sono sicuro che è la sensazione acutissima che Notari, fin dal principio della sua attività, vada ricercando l’origine di tutte le cose, ch’egli cioè tenti un viaggio molto simile al viaggio tentato da Icaro, avvicinare e raggiungere il sole, la luce, il calore, l’energia vitale del sole, la fonte di ogni cosa che viene alla vita. E’ questo incognito, non raggiunto, e forse non raggiungibile mai punto, o fuoco delle origini che sollecita, assilla lo spirito di Notari come il luogo remoto dal quale giungono tanti richiami e l’invito persistente a mettersi in viaggio, a sollevarsi dal piano del reale per immettersi in orbite in cui le cose della terra diventano altro da sé: un disegno, un colore, anzi una luce, un’idea, cioè una forma che ha perduto il suo peso, le sue imperfezioni, in una parola la sua vecchiaia. Tutte le cose della terra tornano così al punto di partenza, all’inizio della loro probabile materializzazione, al punto oltre il quale l’esperienza, l’impatto duro e dolente con la realtà avrebbe dato un nome; tornano quindi alla bellezza ineffabile della loro infanzia.

    Se ci si immerge nella pittura di Romano Notari, nella sequenza continuativa delle immagini ch’essa ha provocato e provoca nella continuità di esperienza, ma è meglio dire di un servizio di devozione che non ha limiti di fatica, si può avere un’altra sensazione, che a poco a poco si traduce in fatto di conoscenza, in una presa di coscienza ed infine in adesione piena e convinta: la sensazione che l’artista compia un viaggio che nella sua spiritualità ardente, nella sua pietas, nella sua lucidissima, accettata, sofferta ed offerta visionarietà, non è dissimile dal viaggio dantesco verso l’altissimo dei cieli, verso il centro del cerchio e della sfera, la luce nascente, la luce irradiante — “i soli infocati che bruciano, giganteschi girasoli” notava Carlo Cardazzo nel ’59: il punto cioè in cui tutto quello che era possibile conoscere è stato conosciuto ed ha principio il mistero. Un mistero che l’arte vuole esplorare ed annunciare con i suoi segni.

    È un viaggio che dura da quasi trent’anni. Un viaggio? Un volo, e bisogna dire che questo viaggio o volo illimite si sviluppa in uguale misura nei due sensi opposti. Di tanto infatti si allontana dalle presenze concrete, dalle oggettivazioni temporali e dalla pelle delle cose della terra verso l’esterno, verso la remota stella fissa che manda incontro a Notari il suo raggio di luce, di tanto si allontana verso l’interno, ad esplorare, seguendo quel filo di luce che è come il raggio d’un laser, tutta la dimensione del profondo. Questa esperienza bicipite, ancora un effetto speculare, un’area impalpabile di riflessi, isola Notari, lo chiude, lo incapsula come in un uovo — ecco un dato di stile: uno di quegli ovoidi da quali tante volte muove i passi la simbologia della sua figurazione, quasi fossero uova gallate dal mistero. Lo incapsula, dicevo, all’interno di uno schermo irriducibile, impermeabile, indeformabile, cosicché egli ha potuto attraversare le esperienze del suo tempo, astrattismo, nuovo realismo, mec-art, nuova figurazione, nuova oggettività, pop-art, iperrealismo, e quante altre si vuole, senza esserne urtato o coinvolto, si direbbe senza esserne sfiorato. Uscendone anzi, adesso che e tempo di vanificazioni, di superficiali irritazioni sensorie e di aridità inventive, trionfalmente, con la sua cornucopia solare. II tempo dell’azione di Notari è stato infatti tempo di rapidi avvicendamenti di tendenze e di poetiche, di scavalcamenti, di sovrapposizioni, di conflitti di idee, e non sempre su una linea di sviluppo progressivo.

    Se lo controlliamo sulla data di apparizione in scena di Notari pittore ci accorgiamo che egli si presenta nel momento in cui le lunghe aspre diatribe tra l’arte di tendenza astratto-concreta sostenuta dall’autorità e dal prestigio di Lionello Venturi e il realismo socialista rilanciato da un severo richiamo all’ordine firmato da un certo don Rodrigo, pseudonimo di Palmiro Togliatti, vengono superate dall’entrata in scena e dall’ascesa dell’informale, che si propone e dilaga quale poetica dell’angoscia endemica del nostro tempo, delle paure, delle profezie di distruzione totale che incalzano nell’aria, non soltanto figuratamente, come nuvole in un cielo di tempesta. L’artista le testimonia dall’interno, quasi che il suo gesto nasca nel punto stesso in cui l’angoscia esistenziale e le cause che la provocano fanno una cosa sola. D’altra parte, in Italia, e non soltanto in Italia nella generazione che non ha esperienze di vita negli anni anteguerra, che è adolescente nell’immediato dopoguerra, apre gli occhi su distruzioni immani, e deve prenderne atto, e deve materialmente fronteggiare la rovina fisica del territorio, delle città, delle stanze in cui vive anzi bivacca, il realismo di fondo, tragico, drammatico persino nel suoi risvolti viscerale e grotteschi, assume i contorni sfatti, ambigui ed i colori lacerati nel fiele e nel sangue della nuova figurazione. La reazione al pessimismo implicito in questi aspetti dell’Informale sarebbe arrivata sotto forma di una nuova oggettività esasperata, ironica, critica persino nei riguardi della filosofia pratica che la generava: il consumismo della pop-art, con tutti i suoi corollari, anche quelli che la negavano: l’arte povera, la land-art e sotto forma di un doppio sbocco finale riparatore: l’iperrealismo di origine fotografica, insieme con i nuovi interessi di cultura, di mercato, di collezionismo per la storia e per l’estetica ancor tutta da fare della fotografia e l’arte concettuale, con tutte le sue proposte anche corporali, sia individuali che collettive, con i suoi nuovi rituali profani, molte volte profanatori.

     Nella pittura di Romano Notari non si verifica niente di tutto questo, o appena qualcosa come un riverbero lontano, un brusio remoto, quasi di risacca, una frangia sottile, o un mobilissimo alone di luce diversa. A meno di credere, con Elda Fezzi, leggendo allora sul rovescio di una medaglia consunta dall’uso e annebbiata nel suo calco, che è proprio la pittura di Notari quella che ha captato e ha fatto germogliare il più vero senso dell’lnformale — nella misura in cui l’Informale è stato “tutt’altro che pure pittura di gesto” e che in un opera vibrata come quella di Notari, il quale non fa dell’arte sperimentale o di adeguamento più o meno scientifico, se non nel senso che l’attività rinnovata del linguaggio pittorico possa riflettere una necessità di comunicazione col mondo, di risposta tutta interiore, è passata “la qualità intensiva, tutta spinta da un’interna violenza” che generava “il crepitante organismo di Fautrier, la rapina terribile di Pollock, il disintegrante rovinio di Wols o anche l’irritante assalto del nero, dei segni come pulviscolo pesante, che cresce sui neri di Michaux” qualità intensiva tanto banalmente tradita, invece, nell’opera dei molti, scarsi, epigoni informalisti, ridotta ad un atteggiamento “esterno ed edulcorato”. Dire queste cose, così intuitive ed acute, significa tuttavia riconoscere e sottolineare il carattere disperatamente fantastico e visionario assai più che ipotizzare un’impossibile confusione di termini, tra pensiero ed azione, per esemplo, tra ispirazione e raggiungimenti dell’opera di Notari, a parte la sostanza appunto visionaria e fantastica proposta dal suo mondo in evoluzione continua, dal repertorio così fiorito di immagini che sembrano fissate nel magico arresto di un attimo. Come lasciano come autentiche illuminazioni, di Notari e di Notari lui stesso tante definizioni che gli amici ne hanno dato e che bisogna accogliere capire delle immagini della pittura anzi come rapide accensioni di fari disposti qua e là nello spazio che sciabolano il buio. Ricorderò ancora: “i soli infocati che bruciano, giganteschi girasoli” e “il miscuglio di personaggi giocondi e calamitosi” citati da Carlo Cardazzo, e “veri strappi dell’anima”, poteva scrivere Giuseppe Fumagalli, ricordando per una mostra alla galleria “Le Ore” nel 1971 il primo incontro con i dipinti di Notari a un Premio San Fedele.

    Andrea Emiliani raggiunge il massimo della concitazione, quando, per una mostra a Bologna, parla di “una favola grandiosa di voli notturni, di palpiti colti sul limite del boschi, di attoniti silenzi “ e un poco prima aveva accennato a qualcosa che Notari conduce: “ad uno spasmo ottico”. Si giuoca dunque su una tastiera che viene toccata anzi appena sfiorata con la punta delle dita, per produrre un accordo armonico generale d’insieme assai più che una linea di sviluppo melodico. Tra abbandoni e tesi soprassalti, che richiamano le pulsazioni dell’informale, la sola stagione dell’arte del nostro tempo che sulla punta delle dita può essere evocata, ma davanti all’opera di Notari e davanti a ciò ch’essa dice, velata com’è di sottili allarmi, sottili inquietudini, sottili malinconie: sottili e perciò tanto più resistenti, e difficili da eliminare. Lo può essere purché tuttavia si tenga ben presente che la strisciante declinazione informale di Notari non ò un frutto dell’angoscia o delle torbide voragini che sono all’origine dell’informale ma è una testimonianza delle ansietà dell’attesa di un miracolo, della nostalgia per un paradiso che un tempo era dentro di noi, intorno a noi. Un paradiso che adesso fugge davanti a noi, che ci sfugge, sempre più lontano, anche se la luce ch’esso ancora proietta verso l’occhio del pittore e che il pittore accoglie come l ‘assetato accoglie l’acqua piovana e una luce rivelatrice.

    Roberto Tassi ha detto che la luce in Notari è “funzione dell’immagine, che può vivere soltanto in questa chiarità senza tempo” e in altro momento ha esaltato l’ubiquità della luce delle opere di Notari: cioè, immagino, la sua presenza invariata dentro lo spazio fittizio eppure concreto della pittura. Con gli stessi effetti di concentrazione e di diffusione, uniformi monotone, che sono della luce solare, del suo viaggio nello spazio reale senza che l’occhio dell’uomo sia in grado di afferrarne le variazioni lungo il percorso. Perché l’uomo è dentro la luce, come Notari è dentro la pittura. Unicità della luce, ma anche unicità del colore, che è sempre lo stesso nelle variazioni che può assumere tra il momento dell’alba e il momento in cui la notte è una realtà. Per Notari il colore è il giallo; e il giallo è il colore dello spirito. Ribalta quindi la classificazione fatta da Kandinsky, che situava nell’azzurro l valori evocativi, simbolici, del cielo e dell’infinito. Il giallo dunque come riferimento della luce piena, della vita. Il giallo come qualità solare e come ripetizione del disco solare, cioè della forma regale del dinamismo che torna a chiudersi su se stesso, a saldarsi alla propria destinazione; che si consuma e si rinnova, che è anche forma allegorica della figura del padre nel gioco che la sorte intreccia tra e carte maggiori dell’esistenza. “Nel giallo della rosa sempiterna”, ha detto Dante, e indicava il cuore stesso della vita e dell’esistenza contemplate nel fuoco divino della loro creazione e della loro continuità. La rosa che si apre, si allarga come una luce veduta al rallentatore e in un tempo che la pittura rende trasmissibile. La rosa che diventa alone, corona, corona di angeli e di santi, fiore della vita contemplativa che nell’ora calda getterà altri petali gialli, arancione, che diventeranno terra, uomo, quasi a rendere possibile ed evidente uno scambio di reciprocità di “desiderio-amore” tra l’origine e la fine: una fine sempre rimandata perché nel fiorire la rosa è perenne. Il giallo anche del mattino, che è liquido, trasparente, quasi venatura impercettibile all’interno del chiarore dell’alba, e il giallo del tramonto, che s’imbeve di rosso, di sangue, e prende tutti i colori possibili di tutte le rose possibili, anche delle rose che appassiscono in una trasgressione di tinte che raggiunge il carminio, il rubino, l’indaco, il viola luttuoso, quasi nero, del nero ambiguo dell’ultimo crepuscolo sino a spegnersi dentro un’ultima vanescente lingua di fuoco. Il giallo anche insondabile del sole. Carlo Cardazzo di fronte al giovane Notari ha toccato un suo momento critico felice quando ha richiamato davanti alle pitture di Notari la Città del Sole di Campanella, una delle tante città del paese di Utopia. Ovviamente il suo suggerimento era di natura poetica, ma non si può escludere che in cuor suo Notari aspiri davvero ad un progetto integrale di vita, un progetto del quale siamo in grado di intendere già le linee portanti di una struttura fatta di ellissi e di cerchi assunti anch’essi come forme della perfezione.

    Le mappe di Notari possono essere città fantastiche, luoghi di un sogno ardente fatto ad occhi aperti, momenti di una cosmogonia ispirata, una quantità fluida in crescita, semovente nello spazio illimite e immisurabile, trafitto da strani segnali. Segnali simili a contorni di uccelli, quasi modelli ideali della creatura capace di volare, o simili a contorni di uccelli trasfigurati in contorni di colonne, stipiti, architravi, cioè di strutture portanti di sublimi architetture irrazionali, e di contorni che alludono anche, molte volte, e scopertamente, alla presenza di urne, capitelli, reliquiarii, sicché il giallo è il giallo dell’oro, simbolo dell’infinito e dell’incorruttibile, della materia che non può essere violata, sempre uguale a se stessa nella sua sostanza e nella sua luce, che è poi luce di purezza assoluta. Il giallo dell’oro, cioè dei baldacchini, delle raggiere, degli ostensori, della metafisica. Insieme con la sua solitudine, con la sua solitarietà, la pittura di Notari presenta un altro aspetto che gli è proprio ed esclusivo: questa fantastica, massiva, monolitica compattezza all’interno della sua immateriale coerenza formale e spirituale. Si può anche dire, che è l’aver giuocato tutto su una sola carta senza dare mai segni di stanchezza o di esaurimento. Aver giuocato, aver rischiato, aver vinto. L’idea unificante dell’opera di Notari, questa sua strana eco sonora, costante, su un tono che è sempre sul limite del salire, o dello scendere, di farsi più acuto o più grave (ed è già un fitto movimento, tutto tenuto all’interno, che provoca una sorta di ipnosi) è l’idea compatta di spazio dentro la quale sono immersi, come in vitro, quelli che Franco Russoli ha chiamato emblemi e simboli “di una condizione psicologica e di una storia intimista”. Aggiungendo, subito dopo, che le figure di Notari non sembrano lette nelle macchie solari quanto invece “nel tuorlo di un uovo fecondato”, con una indicazione che riconduce alla nostra mente il colore dominante della pittura di Notari e la forma chiusa, inviolabile, l’emblema quasi araldico del contenitore della vita, e delle modificazioni che rappresentano la vita.

    Così la monotonia della pittura di Notari è soltanto apparente, perchè un filo evidente allaccia i primi disegni di uccelli, i primi disegni di corpi femminili ai “Monumenti per Ledacigno” venuti tanti anni dopo ed alle serie così struggenti degli “Amori solari”. É il filo che lo sviluppo del tema dell’amore e della sublimazione, sino a raggiungere con gli “Amori solari “ la perfetta reciprocità io-amore ed io credo anche primo grado della liberazione dei temi letterali e dei mezzi figurativi dal velo delle allusioni, e come distacco dettato dal pudore dei sentimenti. Quel filo, subito dire, si sviluppa o un itinerario che segue naturalmente, anzi ricalca con estrema minuzia le modificazioni appunto, anche e semplici fluttuazioni delle idee dell’artista e dei suoi sentimenti. Delle forme, anche, intorno al loro nucleo e, dal momento in cui Notari gli elementi primari del suo repertorio, la donna, gli uccelli, individua il suo tipico modo di procedere per coordinare energie creative che non appartengono soltanto all’immagine pittorica ma si manifestano sempre in coincidenza con l’animo dell’artista; per il quale “cercare” è anche in misura lancinante “cercarsi” quasi un incalzante, ossessivo, ossessionante girare intorno alle cose e dentro le cose. Si condensa così, in clima caldissimo, avido anzi di calore al punto di ricorrere alla fiamma per bruciare la carta non tanto io credo per richiamare l’attenzione su una violenza gestuale, quanto sulla disponibilità dell’artista a toccare l’estremo; si condensa così, dicevo, su dati molto semplici ma carichi di tensione, carichi soprattutto di voglia di futuro, e in una fase che Francesco Arcangeli ha definito candidamente e intensamente autoctona cioè senza troppi appigli e agganci con il già veduto, l’apparizione di figure “semplici intere, diafane, fosforiche eppur concrete in dolce inquietante umanità”. Ha inizio cioè un lavoro di scavo interiore, che verifica, confronta, misura la sua esaltazione lirica; in un certo senso anche la sua profonda natura di profezia, il suo ingresso nel dominio della poesia: e non dovremmo aver paura di dire, nel caso di Notari, la sua “assunzione”, nel dominio della poesia.

    Subito, fin dal principio, le opere più significanti di Notari consentono di intuire larghi sviluppi, di individuare la presenza di qualcosa che non andrà mai perduto: il mistero della nascita delle cose, della loro origine e dei loro rapporti all’interno di un processo di crescita che agisce su se stesso e sulla trama di un dialogo, dove le figure degli uccelli e le figure dei nudi femminili si riflettono a specchio, si doppiano, hanno già figura e significato di simbolo. Sono figure di uccelli che nei loro dati morfologici ricordano gli umani, e figure di donna che nella loro delicatezza ricordano i piumati. In queste immagini e nei loro voli, cioè nelle tracce dei loro voli, come nelle cesure, nelle pause di tanti celesti percorsi, che diventano reali proprio attraverso la formulazione fantastica, e diventano specchio delle eccitazioni terrene proprio attraverso le vertiginose lontananze che possono suggerire, Notari ripone tutta la sua confidenza, cioè la sua sconcertante ed insieme così suadente capacità sia di silenzio che di confessione. E le variazioni del suoi umori-amori, le speranze, le delusioni che seguono i primi candidi slanci, i primi approdi ad un’espressione artistica che subito fin dal principio vuole essere accettabile, ed è contemplativa e persino mistica, e non può quindi non impregnare di sè anche l’artista. Non può, voglio dire, non travolgerlo per mezzo di una lenta attrazione nella consapevolezza delle attese e dei dolori del mondo, e quindi non spingerlo a registrare dentro di sè, come va registrando sulla tela o sulla carta, i soprassalti anche più lievi d’una sensibilità percossa senza soste e proprio nel rapporto che corre tra l’artista e la sua opera, ma prima di tutto e soprattutto tra il cielo e la terra.

    Nella trama di un ordito fitto, senza smagliature, che insensibilmente allaccia una figura all’altra, e l’una travasa nell’altra, simili e distanti, “di metamorfosi in metamorfosi”, come ha scritto Dante Isella per una mostra di Notari a Campione nel ’74, o per usare una parola a lui (Notari) cara: “di processo in processo”, “gli uccelli sono foglie al vento, disperse o raccolte in affettuoso colloquio tra loro e gli uccelli-foglie sono petali di rose o chiuse in boccio, in forma di uovo (quasi la cellula generatrice della vita, la particola germinale al vento), “aperte a bere la solarità del cielo, a penetrarsi della luce che ne piove, e nulla in questo magma incandescente ha una sua forma fissa, cristallizzata una volta per sempre come in un pianeta raffreddato, ma continuamente partecipa dell’energia primordiale che trasforma ogni cosa, accomunata alle altre ed insieme misteriosa della sua molteplicità in divenire”.

   Chiunque ha avvicinato l’opera di Notari, che è poi la stessa cosa che avvicinare Notari, per una quasi magica simbiosi esistente tra le finezze della pittura e le finezze persino morfologiche dell’uomo, può aver capito che lo spazio dentro il quale avviene il miracolo della trasformazione di pochi segni e di pochi colori in un’immagine fulminante, non ò soltanto uno spazio compatto, massivo, tutto pieno ma ò anche uno spazio chiuso, cerchio, sfera, ellisse, ovoide: rare volte spazio con angoli acuti, come elemento esterno di riquadro, di contenimento; espediente anzi strumento adatto per esaltare il contrasto tra una vitalità che si intravvede o si intuisce compressa ed i limiti ch’essa deve forzare per espandersi intorno come richiede la sua vitalissima, esplosiva energia. Può aver anche capito che è lo spazio affatto mentale, poetico, artificiale e al tempo stesso naturale, di una concentrazione che tende anch’essa allo spasimo, per riconoscersi su un punto che è il segno del niente e al tempo stesso il segno del tutto. Può ancora aver capito che molto presto, nella carriera di Notari, l’immagine anzi la visione pittorica si stabilizza, se questa può essere la parola quando barbagli di luce sui quali si struttura la visione rivelano che agisce su di lui uno stato continuo di eccitazione e di rapimento estatico; si stabilizza, dicevo, su un ritmo piano. Un ritmo che rallenta i movimenti, i trasferimenti, le traslazioni dell’immagine all’interno del suo modulo già per se stesso rallentato, quasi che l’immagine che allude a voli, aperture di corolle di fiori, accumuli e spartizioni di elementi figurali, si sfaldi, si sciolga, defluendo lentamente nell’area dell’inedito dalla quale è comparsa. Questo ritmo piano, riflessivo, ha rivelato rare volte una frattura, in corrispondenza di momenti di particolare tristezza, o di ricerca particolarmente sofferta.

    Penso a un dipinto come Omaggio a Te-a del 1962 che può apparire nel contesto della pittura di Notari, anche soltanto quella dei primi anni, come un’immagine strappata; penso ad Ora sospetta, con la prima apparizione di uno schema a croce che ritornerà quasi trionfante in anni più vicini a noi; penso ai rombi spezzati, spiazzati di Processo ai santi morti come a tanti segnali spigolosi di inquietudine o di amarezza esistenziale. Sulla base di questi segnali che d’improvviso attraversano il cielo d’oro della pittura di Notari fino a un certo punto della sua attività, si potrebbe anche esser tentati, e qualcuno è stato tentato, di trovare un filo segreto che istituisce un rapporto tra Burri e Notari, immaginando intanto che i due artisti possano aver qualche espressione in comune perché sono nati vivono e lavorano nella stessa area, tra Assisi, Gubbio, Perugia, caratterizzata dall’ansietà e dalla animosità delle creature che impegnano tutto di se stesse in una ricerca di assoluto. E nei due artisti è possibile forse cogliere qualche traccia comune, una certa vena mistica seppure diversamente orientata, una certa volontà di lasciare il peso della terra alle spalle o di consumarlo, trasformarlo, sublimarlo.

    Ma in Burri vince poi sempre il senso della mortificazione, della riduzione delle cose al loro ultimo fondamento, per farle coincidere con i segni della loro consunzione, per chiuderle sulle loro ultime residue possibilità di essere qualcosa. Così, l’opera dell’arte diventa quasi un segnale di penitenza laica, esercitata attraverso la materia della pittura. Nell’opera di Notari, invece, appare sempre annunciata e ripresa la probabilità della gloria, con un fraseggio che a volte manifesta tonalità dolorose, perché la gloria così visibile nel suo sfolgorante apparato è sempre un poco oltre il punto cui possono arrivare i nostri sguardi e le nostre braccia. Burri, si potrebbe anche dire, rintraccia le ragioni della sua esistenza come uomo e della sua presenza come artista, nelle ceneri nei segni di decadimento, e della rovina finale, in ciò che può rapidamente bruciare, nelle rughe dei suoi cretti, in ciò che è soltanto un inganno offerto alla bellezza. Notari invece dice sempre con accorata patetica consapevolezza dei propri limiti, dei limiti della materia, e quindi anche delle proprie aspirazioni, che si va cercando nella luce di un punto che può restare irraggiungibile se non si lascia da parte, per una schietta rinuncia, ogni ingombro o inciampo spirituale. La gloria alla quale la sua opera allude sempre, verso la quale Notari ci trascina al suo seguito, è una gloria dolente, un trionfo arcano sopra la corruzione e la morte, che è nutrito di dolore e genera dolore.

    Seguire gli sviluppi della pittura di Notari, significa accettare di intraprendere un viaggio all’interno di immagini che a loro volta si muovono in uno spazio fantastico in continuativa formazione. In uno spazio che lievita, si sommuove quasi percosso da movimenti tellurici specialmente nei primi anni Sessanta, si aggruma, si gonfia come un cielo di nuvole stratificate, di cumuli nembi, di cirri. È un viaggio esaltante e vertiginoso, tra compressioni ed esplosioni della materia, in una luce che nella gamma degli splendori dell’oro, varia le sue tonalità secondo le variazioni dei campi di energia. Secondo cioè le forze che premono incalzando e modellando gli aspetti apparenti, i dati fenomenici della visione dell’artista, suggerendo forme, embrioni di forme, un occhio, un becco, una zampa, un ventre, una maschera, ma anche un tubero, una rosa, un colombo, uno stormo di colombi, un cestino di rose, o una corona come si vede in Uovo a sorpresa. Suggerendo altre volte la forma o soltanto l’impronta di un capitello, di un ostensorio, di un turibolo, di un reliquario, cose sospese tra cielo e terra come dicono i titoli di certi dipinti, o contro la parabola trionfale di un arcobaleno: simbolo anche questo di rinascita alla vita, di resurrezione, di gloria celeste, di felicità. La parte apparente della visione di Romano Notari, tra implosioni magmatiche, che alludono ad un riflusso delle immagini verso l’indistinto, verso uno stato di tenere friabili concrezioni di garze leggere, ed esplosioni che liberano forme ammiccanti, allucinate a volte allucinanti, l’apparenza, dicevo, è chiaramente giuocata su elementi simbolici, che però non si chiudono avari nei loro contorni grafici e letterali o nella scala cromatica, che pur è tutta una smagliante tessitura di ambre e di zolfi, ma si aprono verso il dominio incantato del Simbolismo.

    Per questo l’arte di Notari può apparire così diversa, così spaesata rispetto allo spettacolo generale dell’arte. Non soltanto perché conferma la fiducia del mezzi tradizionali della pittura, ma perché con essi realizza una profonda operazione di metamorfosi, all’interno della quale le strutture del linguaggio non riflettono le linee di un programma estetico, ma sono, semmai, la concrezione di un’intensa facoltà visionaria. Una nuova pittura di visione, ha detto una volta lo stesso Notari e il Gran Maestro dei Rosa + croce, che bandiva dal campo della rappresentazione artistica tutto ciò che non rispondeva al concetto di bellezza (credo, ha anche detto Notari, nella bellezza del nostro e degli altri mondi) ed al concetti di superamento poetico dell’esperienza mondana e di aspirazione al sublime, avrebbe accolto Notari tra i suoi cavalieri dell’ideale. Lo avrebbe certamente messo in prima fila; non fosse che per il senso incandescente di fioritura delle immagini sopra l’ignoto e per il cocente desiderio di esprimere l’inesprimibile; di dare forma plastica alle idee; di formulare insomma una prima ipotesi circa le figure e la natura del mistero che ci angoscia e ci attrae, partendo dall’ipotesi più semplice, che pure le contiene tutte: la macchia di Rorschak, non più macchia chiusa dentro i limiti capricciosi ma macchia in lenta, calda, continuativa espansione.

    L’impronta araldica di Notari. L’embrione sensitivo della sua fantasticazione è infatti una spora di luce: un nucleo, un bulbo luminoso, che nel corso della sua epifania ha assunto ritmi cadenze e modulazioni diverse, ma sempre, poi, si è condensato attorno a forme o sospetti di forme primigenie, fetali. Forme, che apparivano suscitate dal fulgore della luce e che si aprono alla luce; che respirano, crescono, si accumulano, si annuvolano seguendo ellissi e sinusoidi ascensionali; che esplodono in raggiere barocche, brillanti come reliquiarii e ostensori. Luci colorate che per mezzo di impalpabili e impercettibili modificazioni del tono o della quantità e qualità della loro trasparenza, qualche volta anche con improvvisi risvolti specchiati e specchianti, svariano passando dai bianchi appena screziati ai gialli solari, ai rossi garanza, ai cremisi, ai violetti, ai bruni vellutati e notturni.

    Con mano leggera, quasi come un sospiro all’interno di una lucida eccitazione, Notari disegna le mappe del regno della sua visionarietà e traccia le linee segrete di un itinerario che sfiora gorghi, voragini, abissi profondi ed apre improvvise, folgoranti fughe prospettiche, proiettate a volte verso distanze senza fine, altre volte invece graduate come una lenta proliferazione o gemmazione o infiorescenza di suggerimenti visuali, e sono quasi soltanto dei trasalimenti visuali. Teneramente attratta nel cerchio di una comunicazione osmotica che ha una sua componente sensuale, la coscienza dello spettatore partecipa, lungo questo itinerario, alle intuizioni della coscienza dell’artista, e può intendere il fondo drammatico di un’operazione pittorica che è anche opera di esorcismo e di liberazione nonostante le squisite e quasi soavi apparenze, cattivanti anche quando sembrano mostruose; nonostante la loro matrice esaltante, gloriosa, in una luce che affiora e si impone come certi lumi soprannaturali nei cieli del Correggio, all’interno di impronte nitide come cammei, che vorticano immobili come i cerchi dei cieli di Blake; nonostante, infine, che nelle opere più recenti si riveli un desiderio sinora inedito di strutture regolate da una misura, e almeno da un ritmo architettonico, la pittura di Notari è un’azione drammatica. 

    E’ l’espressione accorata di un dramma che si sviluppa fuori del tempo e dello spazio conosciuti, perché Notari ha reciso ogni legame con un presente storico, che gli può offrire soltanto situazioni e figure bloccate, coagulate, cristallizzate estranee quindi al suo sentirsi vivere in un continuo farsi, in un continuo doloroso nascere. Molte volte gli stessi titoli dei dipinti di Notari suggeriscono l’opera aperta, la provvisorietà delle immagini introdotte nello spettacolo. Sono, molte volte, participi presenti: ovalizzante, crisalizzante, illuminante ed alludono ad eventi colti sul vivo del loro flusso, sospesi per un attimo sulla loro costante modificazione, sottratti per uno iato alla continuità della genesi. Altri titoli anticipano nomi di cose e figure di là da venire e la presenza così insistita dell’occhio tra gli elementi iconici, l’occhio aperto o socchiuso, vuole certamente indicare la volontà dell’artista di guardare oltre le apparenze, forare la pelle delle immagini, mettere allo scoperto il loro segreto. La pittura di Notari illustra infatti un mondo che non ha ancora operato le sue scelte, che perciò non ha ancora tradito la sua originaria destinazione ed è ancora tutto disponibile, tra incantamenti ed allarmi, e consente di prevedere, almeno come segnali, le figure che oscuramente aspettiamo di veder comparire.

 

Luigi Carluccio, Romano Notari, Collana Terzoocchio, n. 3, Edizione Bora, Bologna 1979.

 

 

Partiamo da una affermazione di Romano Notari: “Il mio lavoro è dialogo doloroso, ossessivo tra me e l’opera, tra le visioni che vorrei salvare e le contaminazioni che debbo combattere”. Dal contrasto indiziabile nel rapporto tra ricerca e insorgenza dei dubbi, tra l’impossibile concretezza della visione e l’intrico materico-esistenziale, germinano le metamorfosi del nostro: cioè a dire i procedimenti espressivi che accavallano e agganciano identità e differenze alto stesso tempo. Ciò significa che l’opera di Notari persegue un’immagine di precisione — e il suo stampigliarsi nel testo -— che il senso della tradizione e delle certezze accumulate lungo il muro degli anni fanno intuire come pregnante e immediatamente raggiungibile. Ma al medesimo modo l’integrità — o ha possibile integrità — della visione viene intaccata e compromessa rovinosamente. Le ragioni di tutto questo sono intuibili, ma al limite, inteso che le opere non sono ha descrizione quanto il sismografo di una crisi, esse potrebbero apparire inessenziali ai fini di un discorso sui testi. Quello che importa — e compare — é infatti l’ordito in cui arrivano ad incunearsi i diversi sintagmi e le diverse, opposte, combinazioni espressive. In luogo di una frattura verticale o comunque di una scissura tra le diverse componenti (per cui l’una uniforma un quadro o prevale a seconda degli altri), si ha una sorta di unità determinabile dal connettersi di due diverse tensioni emotive. La rappresentazione non si omologa a nessuna delle due, preferendo l’adesione ad entrambe: si decalca in definitiva su un nucleo sempre avvertito unitariamente, sia pure nel contrasto (visione vs contaminazione, per l’appunto). All’origine c’è probabilmente la totalità dell’arte e della vita passate: filtrate dentro il paesaggio, nel milieu e nell’air ambiant, nell’abitudine a guardare e a giudicare, a percepire sensitivamente, secondo un’immagine mentale forgiata nella consuetudine. Che questo si sia risolto e si sia potuto svolgere in spiritualità, come è parso a certuni, può anche non revocarsi in dubbio. Ma giacchè si è pure parlato di una religiosità in un qualche modo irrelata e a sè stante, preferiamo personalmente optare per una forma di spiritualità indeterminata e lucida, tutta protesa verso la luce e la visione, attenta a cogliere nei processi della rappresentazione il rifrangersi, problematico e deperibile, di una intensità e di un apriori tutt’affatto intellettivi. Tale pienezza è quella del cosmo, quella dell’unità tra creato e individuo in un eden remoto e irripetibile. Essa appartiene, piuttosto che all’opera e alle concrete realizzazioni, al sentimento che uniforma il processo fantastico ad espressivo. E’ nella cultura (una cultura assommante in sè i connotati della natura) che confluisce nei postulati di poetica, prima ancora che in quest’ultima. L’unità primigenia o la sua idea; la speranza che essa ci sia comunque stata - è orma infranta. La totalità — il tutto al di dentro di un cerchio in ogni parte noto — è pervasa e percorsa dagli accidenti del caso: contaminata in forme irreversibili.

    L’opera di Notari nasce da questo: dall’angoscia di un qualcosa che, indefinito che sia, è andato perduto, smarrito agli uomini per sempre. Va da sè che la consonanza col paesaggio nativo (che da fisico si fa interiore e, in progressione, mentale) è per questo determinante. Non per ciò quella purezza e intensità sono da intendere quasi nostalgia del sacro. La propensione al metafisico, al sovramondo perfetto e sereno, riesce invece ricordo struggente di una felicità primitiva, prenatale. Ed è la tensione verso qualcosa che sia in qualche modo assoluto e totalizzante a comporre, nel rapporto e nel contrasto verso tutto ciò che appare transeunte, la poetica e la stessa produzione del nostro artista. La luce che invade gli spazi a che con essi sovente si identifica rileva talora la progressiva germinazione di una naturalità sempre altra e sempre metafisica (in accezione, lo ribadiamo, puramente intellettuale).

    Ma al loro interno, dentro cioè le scansioni della più pura e vivida spazialità, gli oggetti e le case si addensano e sospendono come in polle, in teche e strambi alambicchi in cui simbolicamente planino i lacerti della casualità, i frammenti — nell’opera ricomposti ed ordinati — della conflagrazione tra assoluto a contingente. Il dramma di Notari -— la drammaticità della sua pittura — è in fondo qui. Da artista colto e al tempo stesso attento alla ferita più bruciante della cultura occidentale (quella della perdita, col passare del tempo e dagli anni, di una purezza originaria, e la conseguente caduta nella degradazione e nel prosaico: una Dammerung al tempo stesso ideale e storica), egli distende ansia a angoscia in grovigli dalla simbologia allusiva a luminescente. L’iterarsi del motivi è il segna di una inquietudine e di una lacerazione continuamente a insistentemente riproposte

 

Floriano De Santi, Le tensioni emotive di Romano Notari, in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria La Nuova Città, Brescia, dal 21 aprile 1979. 

 

 

Pittore d’intensa spiritualità e contemporaneamente, di visionaria sensualità, Romano Notari lo è sempre stato, al punto che mi sono sempre chiesto se fosse adatto più a dipingere santini e diavoli o non piuttosto scene di travolgente, wagneriano erotismo. Adesso che ha dipinto queste ultime senza infingimenti di sorta, in una sorta di mitologia seicentesco-simbolista (ma ci sono parentele assai più che epidermiche tra quei due mondi), viene da concludere che tra le due tematiche, così come tra i due protagonisti delle scene notariane, non esiste dicotomia alcuna ma anzi una felice fusione d’anima e di corpo per cui sarebbe certo errato dar la palma della vittoria all’uno o all’altro di questi estremi ravvicinati. I temi notariani sono dunque all’insegna d’un titolo, “amori trasparenti” e d’una tematica di partenza che ha nel mitologico evento di “Leda col cigno” il suo leitmotiv. La citazione mitica ben precisa consente infatti al pittore una serie di variazioni quanto mai allettanti, da quelle ispirate all’aurora reniana o quella carraccesca, alle riletture di Blake e dell’esorcismo pittorico anglo-tedesco. Füssli incluso. Il tutto ovviamente, rivissuto da Romano Notari, artista di personalità ormai salda e quindi in grado di porsi e di risolvere problemi formali anche assai ardui come in questo caso. La luce, le trasparenze, le allusioni cui l’artista continuamente ricorre come in un flusso vitale continuo, fanno dell’amore terreno un fatto cosmico, un’accoppiata pronta a farsi costellazione o universo stellato. Quanto al linguaggio notariano, non si può tacere la sua sempre maggiore fusione tonale e timbrica.

 

Giorgio Mascherpa, presentazione in Romano Notari, catalogo della mostra personale, Galleria Campanile, Bari, 19 aprile-9 maggio 1980.

 

 

Entrai in me, e con l’occhio della mia anima, quale che si fosse, vidi, al di là di quell’occhio della mia anima, al di della mia mente, la immutabile luce: non questa, comune e visibile ai nostri sensi, o una più intensa, ma della stessa natura, come se risplendesse molto, molto più chiara e si estendesse dilagante per tutto lo spazio. No, no, non quella; altra cosa, ben diversa da tutte le altre. E non stesa sulla mia mente come olio su acqua o come il cielo sulla terra, ma essa al di sopra avendomi creato, ed io al di sotto, come sua creatura. Chi conosce la verità la conosce, e chi la conosce, conosce l’eternità: la conosce l’Amore!

 

Sant’Agostino, Confessioni VII, X

(Prima intuizione di Dio-Spirito)

 

È stata chiamata, e dunque eccola; è stata blandita, temuta, invocata tra lusinghe e minacce, e infine accolta quale prodiga figlia da una legione di padri adottivi. A codesti genitori improvvisati e imprevisti, spuntati come funghi in un bel prato settembrino, ella, la pittura, s’è presentata, puntualmente, con gli splendori e con le insidie di sempre: la più illustre, la più arrischiata e disvelante fra le tecniche bandite dalla disperata negazione di questo secolo, essa non concede appelli, non ammette giochi o improvvisazioni. Hic Rhodus dunque, hic salta e quanti, vorremmo domandarci, stanno reggendo alla prova? Pochi, certamente; e tra questi, com’era da attendersi, non figurano i patrigni dell’ultim’ora, gli homines novi del pennello che rimasticano con gran furia i luoghi formali più vieti delle avanguardie storiche e li spandono poi bravamente sulla tela, combinando, come talvolta c’è stato dato di vedere, dei pasticciacci che stanno a mezzo tra la Brücke e il disegno infantile. Meglio allora volgersi a coloro che non corrono incontro al pendolo del gusto; che non ne seguono col capo il moto oscillatorio, evitando cosl quel giramento di testa, quello stordimento ben noto che compromette l’equilibrio, annebbia l’occhio, fa tremare il polso, e, con esso, il pennello. Meglio forse gettare uno sguardo a pittori che, come Notari, hanno maturato e affinato a lungo i propri mezzi espressivi secondo una progressione “interna” ostinata e coerente; tanto “interna” al suo proprio linguaggio, nel caso del nostro, e tanto coerente con proprie scelte profonde, da risultare di per sè una testimonianza quasi sconcertante di autenticità.

    Notari non s’è mai mosso incontro alle mode; non le ha neppure disdegnate: le ha semplicemente e candidamente ignorate. Le ha attraversate sorridendo come innocui sciami ronzanti; ha lasciato in operoso silenzio che esse l’avvolgessero e si dileguassero sfiorandolo appena, depositando nella sua memoria qualcosa come l’eco d’un lontano brusìo; ed ora che si riparla di pittura, di figurazione, di spiritualità e persino di romanticismo, Notari si trova quasi involontariamente ad offrirci un saggio tra i più mirabili e sorprendenti d’un’arte insolita, coraggiosa (nel senso che diremo), ma sincera e forte d’un travagliato e paziente tirocinio tecnico ed umano.

    Quanto s’afferma, del resto, è comprovato dalla sua storia; una storia cominciata molto presto, negli anni Cinquanta (Notari è del ’33), in un clima — quello dell’Informale — in cui l’anelito esistenziale del nostro s’inseriva benissimo, come come variante d’ascenenza latamente surreale e già vagamente neofigurativa. Fu Arcangeli, al solito, a cogliere con le parole più dolci e appropriate il lirismo visionario di Notari, e quel suo dilatarsi e ripiegarsi continuo tra un immenso, ostentato clamore (“Notari non ha entro di sè la proporzione del clamore, e forse non l’avrà mai”), egli scrisse, e le ultime opere dell’artista gli danno ancora ragione ed uno stupefatto, candido smarrimento nel mistero della vita.

    Negli anni Sessanta, poi, fu la volta del ritorno all’“oggetto”, e dell’ubriacatura per i feticci del consumo. Per un attimo, forse, Notari tentò di piegarli al suo mondo (Omaggio a Te-a del 1962). Ma quell’ipostasi delle “cose” dovette sembrargli troppo esteriore, ed essa si limitò, per via indiretta, a conferire alle sue forme una più salda struttura ed una maggior presenza fisica; modulata, quest’ultima, sul basso ossessivo del suo immancabile colore, vibrato da sempre sui toni caldi ed accesi del giallo e dell’arancio. Fu allora, sino alla metà degli anni Settanta, che Notari sviluppò le sue matrici ovoidali, le sue allusioni ornitologiche, i girini, i mostri e le crisalidi imbevute di luce solare da cui partoriranno come per incanto le arcane figure umane ed animali delle sue ultime opere: quasi che esse avessero lungamente maturato una sotterranea e formicolante ricchezza di forme e di dettagli, racchiuse, compresse e nutrite com’erano nel loro guscio primigenio. Il momento in cui prende avvio tale metamorfosi, che corrisponde alla genesi dell’ultima fase creativa di Notari, va posto, come detto, attorno al ’75. Nell’arco d’un percorso relativamente unitario ed autogeno (com’è sempre, in diversa misura, quello di un artista dotato di forte individualità), s’è trattato, credo, d’uno dei balzi più considerevoli: un’impennata solo in parte prevedibile, iniziata con una serie di piccoli autoritratti (Io, 1975) e con i primi Monumenti del medesimo anno, culminati, nel ’76, nel ciclo dei Monumenti a Ledacigno e degli Amori trasparenti e Amori solari.

    Vogliamo dire subito che questa ci pare la stagione non soltanto più matura, ma anche qualitativamente più alta dell’artista. In essa, che tocca forse l’estremo limite del rischio nelle tele qui presentate, Notari compie un deciso scarto verso la figura. Il suo repertorio d’immagini non era mai stato propriamente astratto o informale, né, credo, sarà forse mai propriamente figurativo; ma ora i suoi simboli si sciolgono, per così dire, dai vincoli di un totemismo allusivo, ma formalmente autosignificante, per riprendere a suo modo un dialogo secolare, da lungo tempo interrotto, con la rappresentazione dell’uomo e della natura. Se si fosse trattato d’una semplice variazione iconografica, la cosa meriterebbe appena d’essere indicata; ma il fatto, è che, accanto ad una nuova attenzione nei confronti della tradizione pittorica, si assiste, nell’ artista, ad un crescendo delle sue già salde virtù stilistiche e tecniche. Allorché si vorrà porre mano (la maturità conseguita e la ricchezza del suo iter creativo lo reclamano, ormai) ad un’antologica complessiva di Romano Notari, si chiarirà maggiormente quanto andiamo scrivendo; e soprattutto si vedrà com’egli, pur nel tenace scavo delle più diverse tecniche (tra queste l’olio, la tempera, il pastello, l’inchiostro, la matita) abbia conseguito sempre risultati del medesimo valore (una felice sorpresa, credo, verrà dall’opera grafica, che, in alcuni casi, mi pare rivesta un interesse persino superiore a quello dei dipinti; forse perché in essa talvolta è il mezzo medesimo a decantare nei suoi termini essenziali l’esuberanza visionaria del nostro).

    Tuttavia, per quanto esso si presenti ora con un’evidenza che ha del prodigioso, non è certo nell’aspetto meramente tecnico, nel virtuosismo luministico e disegnativo, che si risolve il senso più profondo di questi ultimi dipinti di Notari. Come in ogni artista autentico, nel pittore umbro l’estremo affinamento dei mezzi espressivi è in qualche modo il risultato naturale (se pur faticoso e travagliato) d’una tensione superiore, intimamente spirituale. Nessuno, forse, meglio dell’autore, ha saputo tradurre in parole tale tensione, in una breve nota stesa nel ’69. S’era allora tra l’arte “di massa” e l’ideologismo incombente, in un momento assai poco congeniale al nostro. Nel brevissimo scritto Notari respinge con garbo, tra le righe, i programmi artistici di quel tempo, e, quasi scusandosi, confessa con pudore di “credere nella salvezza dell’arte”; di sospettare che, forse, la dimensione di quest’ultima non può essere scandita dal ritmo contingente del presente, ma vive piuttosto secondo una lenta pulsazione interiore, in un sofferto processo creativo che tende ad un “respiro perenne”.

    È abbastanza piano come, in una siffatta dimensione sovratemporale, il ricorso a materiali figurativi tradizionali non risulti affatto traumatico, ma possa anzi costituire un terreno quasi naturale di confronto. Non solo nell’iconografia, ma talvolta persino nella scelta del formato, ovale o centinato, un deciso richiamo al passato è infatti avvertibile, negli ultimi anni della produzione di Notari. Nel primo dei due grandi cicli dell’ultimo periodo (quello qui presentato è il secondo, di soggetto evangelico) il pittore aveva scelto l’antico tema mitologico della Leda, quale perno di una meditazione cosmica sull’amore: l’amore fisico era inteso come l’eterno perpetuarsi dell’atto creativo divino, universale; e la meditazione sull’amore ad un tempo celeste e terreno, della Leda col cigno, era il tentativo di rappresentare il processo generativo divino, e dunque la sostanza stessa della vita.

    A ben vedere, anche in questo secondo ciclo, intitolato Apparizione dello Spirito (come del resto in tutta la sua opera), la meta cui aspira l’artista è la medesima: giungere ad esprimere l’ineffabile (in questo senso vanno letti i numerosi riferimenti al Paradiso dantesco proposti dalla critica; e forse non è privo di significato il fatto che questi dipinti sfuggano all’obiettivo fotografico); dar corpo e immagine alla sostanza spirituale della vita attraverso il mistero insieme terreno e divino del Vangelo. Da un punto di vista più propriamente stilistico, questi ultimi dipinti ripropongono alcune costanti di Notari: il colore aspro e accecante, innanzi tutto, il giallo-arancio fosforescente di lui caratteristico; l’impiego della luce che, come ha bene osservato Roberto Tassi, non solo genera essa stessa lo spazio, ma con esso s’identifica: la luce, insomma, come essenza medesima della pittura. Poi l’amore non mai tradito per la linea curva, ellittica, ovoidale, che lo riconduce quasi naturalmente alla grande tradizione del Manierismo (anche il tema erotico della Leda fu assai diffuso nel Cinquecento) e alla linea “serpentinata”, qui involuta e intrecciata con i rabeschi languidi e preziosi del Liberty e con arcane suggestioni di matrice simbolista e surrealista.Se pure, a mio parere, i capolavori di questa rassegna (e forse dell’intera sua opera) sono le due grandi pale a pastello del Calvario e della Natività, van rilevati i risultati originalissimi conseguiti con la pittura ad olio; risultati sorprendenti (anche se talora rischiosamente procombenti sul limite estremo dell’“effetto”) ove la materia — ora traslucida e diafana, ora densa ed opaca — diviene veicolo d’una linfa di luce irradiante, ondeggiante, quasi materializzata, che penetra le forme, le modella e le spande attraversandole in virtù d’un incontenibile energia, ad un tempo fìsica e spiriruale. Questi dipinti religiosi di Notari sono l’equivalente moderno della più audace pittura manierista; non soltanto per il vivo gusto del difforme e del mostruoso, mescolato in modo inquietante ad un’esasperata. Ricercatezza formale, ma anche per la strenua volontà di trascendere la materia e di sublimarla in un più elevato contenuto spirituale.

    Si potrebbero forse tentare dei riscontri più puntuali, soprattutto nelle grandi Annunciazioni, Natività, Calvari e Resurrezioni. Faremo solo un esempio: la figura ai piedi di Cristo nel Calvario, curvata all’indietro e come investita e respinta dalla luce, ricorda solo vagamente quella che sorregge le gambe di Gesù nella Deposizione del Pontormo (Firenze, S. Felicita), ma è del tutto simile, nella positura, a quella situata alla sinistra del Redentore nella pala del Barocci del medesimo soggetto (Perugia, Duomo). Qui essa è respinta dal vento; ma vento e luce, nei rispettivi casi, vogliono significare l’energia che sprigiona dal dramma della Passione, e pongono le due figure nel medesimo rapporto con il Salvatore. Non so se Notari avesse in mente il dipinto dell’artista marchigiano, che si conserva nella sua terra; in ogni caso i due grandi nomi che abbiamo chiamato in causa si prestano ad un confronto ideale con il nostro, giacché pochi altri, al pari di loro, nell’arte del passato hanno saputo sollevare il dato sensibile nella soave regione dello spirito. Al di là dei modi particolari, “pagani” (nel ciclo della Leda) o “cristiani” che siano in cui esso si manifesta, è dunque un problema eminentemente spirituale e profondamente religioso, nell’accezione più vasta del termine, ciò che muove l’intera ricerca di Notari. Il fatto che nelle ultime tele egli affronti, con ammirevole coraggio, il più arduo banco di prova che mai possa pararsi innanzi alle mani di un artista europeo, cioè a dire il racconto evangelico, non significa necessariamente che qui, più che altrove, egli abbia inteso dar voce alla propria interrogazione religiosa. La tensione che muove Notari, credo, non è patrimonio esclusivo di una confessione. È forse piuttosto un tentativo d’esprimere in termini visivi (pur secondo un’accezione della luce quasi agostiniana) quella più ampia funzione religiosa, innata nell’anima, indicata da Jung; la volontà, per servirci delle parole dello psicologo, di “portare alla coscienza l’archetipo dell’immagine divina”. Si obietterà che tale, in senso lato, è sempre e comunque uno degli uffici dell’arte; ma in Notari tale compito diviene cosl preminente e ultimativo da farsi la sostanza medesima della sua pittura. Solo con questa chiave, credo, è possibile penetrare il segreto del suo mondo folle di luce e di spirito; solo così è possibile accordarsi con la dolorosa ed ossessiva innodia di questo artista sincero e solitario, che distende ogni giorno pennellate della sua calda anima sulle tele, per offrircela in dono; che vuole ubriacarci e accecarci di luce per consentirci finalmente di vedere e d’amare.

 

Francesco Porzio, presentazione in Romano Notari. Opere recenti, catalogo della mostra personale, Galleria Bergamini, Milano, aprile-maggio 1982.

 

 

ROMANO NOTARI / ANTOLOGIA CRITICA 2 ►