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Esaedro. XXXVI Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea, (a cura di G. Di Genova), catalogo della mostra, Galleria Civica d’Arte Contemporanea, Termoli 25 luglio-6 ottobre 1991.
 
 
   

La caratteristica fondamentale dell’arte del nostro secolo è il continuo ricambio delle proposizioni espressive e stilistiche, dato che s’è rotta da tempo, ed è da credere definitivamente, quella centralità di concezioni, tradizioni ed espressioni, in sintesi quella centralità culturale che nel passato, almeno fino al Settecento, stabilizzava come egemone uno stile e il connesso linguaggio, talvolta per un lungo arco di tempo (in qualche caso un secolo, o oltre) che finiva per connotare l’arte di una nazione o di un più vasto territorio. Così è stato per il Romanico nei secoli XII e XIII, per il Gotico nel Trecento, per il Rinascimento nel Quattrocento, per il Manierismo nel Cinquecento, per il Barocco nel Seicento, per il Rococò e poi il Neoclassicismo nel Settecento, con code sin nell’Ottocento, fino alla grande rivoluzione del Romanticismo, che, privilegiando l’individualità, avviava quella frantumazione del linguaggio, dovuta appunto ai motivi sopra accennati, ma anche all’ampliamento delle comunicazioni, fatto che finiva per arricchire consequenzialmente gli scambi culturali. Nel nostro secolo, poi, con l’accrescimento dei mezzi di trasporto e comunicazione, il mondo s’è come rimpicciolito, non solo per la possibilità di spostarsi in poche ore e comodamente da un continente all’altro, senza lo sperpero di fatica e di tempo d’una volta, ma anche per tutta quella vasta rete di mass-media che in tempo reale possono metterci in contatto con luoghi distanti migliaia di chilometri (si pensi al telefono, alla telescrivente, al fax, ai terminali dei computer, ecc.), o possono letteralmente portarci dentro casa, attraverso la televisione, tutto quanto accade nel mondo, anche i più drammatici eventi, com’è avvenuto all’inizio di quest’anno con la guerra del Golfo. Tutto ciШ ci fa vivere il mondo “in condensato”, per cui le sollecitazioni, pur perdendo spesso in profondità, si sono talmente moltiplicate da rendere difficile una stabilità culturale e linguistica. Pertanto la frantumazione del linguaggio, avviatasi con le nuove espressioni e i revivals dell’Ottocento (Romanticismo, Realismo, Impressionismo, Neoimpressionismo, Neogoticismo, Preraffaellitismo, Simbolismo, ecc.) e radicalizzatasi con l’avvento delle avanguardie artistiche e il conseguente sperimentalismo del Novecento, oggi è divenuta regola, al punto che i modi (e le mode) espressivi si susseguono convulsamente, spesso anche all’interno della produzione individuale. Se nelle leggi della fisica la materia si tramuta in energia, la quale a sua volta concorre a dar origine a nuova materia, nelle leggi dell’arte del nostro tempo tale processo nel bene e nel male viene ripetuto. E ho detto nel bene e nel male, perchè, quando a sostegno della ricerca c’è talento e inventività, allora tutto procede bene; ma, quando queste doti mancano (e oggi ciШ troppo spesso accade), allora si hanno gli scimmiottamenti senza senso, i trasformismi furbeschi sulla scia di certe indicazioni critiche e di mercato, e tutto viene riciclato sotto le mentite spoglie della novità dell’ultima ora. Ed è lo scotto che va pagato per la grande libertà espressiva conquistata con l’avvento della frantumazione del linguaggio e della permessività a essa connessa. Ma si badi. Anche se la pletora delle proposizioni linguistiche nasconde tra le sue pieghe simili parassiti, l’odierno panorama artistico italiano è abbastanza vivace e valido proprio all’interno di quella dialettica delle libere proposizioni linguistiche permesse dalla situazione contemporanea, la quale non accetta prevaricazioni ed egemonie di sorta, riassorbendo metodicamente le effimere mode, di volta in volta messe in circuito da interessati critici, più sensibili al successo personale che non alla cultura e all’esteticità delle opere, e da quei mercanti, più dotati per il commercio che non per l’arte, che con i primi fanno combutta. Esistono, cioè, nonostante tutto, autentiche forze espressive le quali, anziché seguire il canto delle Sirene della moda del momento e del facile guadagno, s’applicano nella ricerca espressiva (talvolta con accanimento) che imperiosamente il talento esige da loro al fine di emergere appieno e così farsi linguaggio artistico autonomo nella dialettica delle proposizioni in atto. Proposizioni che sono tante, anzi tantissime e pressoché illimitate, proprio per il nuovo statuto affermatosi in seguito all’avvento della frantumazione del linguaggio. All’interno sia dell’iconico che dell’aniconico (e adopero tali termini al posto di figurativo e astratto perché, in arte, “figurazione” e “astrazione” sono termini che creano confusione, in quanto tutta l’arte, qualsiasi sia il suo specifico, è sempre un’ “astrazione” linguistica) si possono avere discorsi differenziati che sviluppino ricerche le quali, da partenze irrazionali o razionali, sappiano approdare a esiti veristici, fantastici, onirici, visionari, sintetici, analitici, modulari, geometrici, materici, segnici, assemblagistici, monocromi, neoconcettuali, simbolici, percettivistici, cinetici e via dicendo, nessuno dei quali è interdetto dalle leggi che governano l’arte contemporanea, perchè nell’universo dell’arte d’oggi c’è posto per tutti i discorsi e i linguaggi, perchè siano supportati da qualità e da quel valore che Brandi chiamava “astanza”. É chiaro che in una rassegna, così come non si possono documentare tutti i validi artisti attivi in un periodo, è altrettanto impossibile riproporre tutte le morfologie del discorso artistico in atto. Pertanto ho scelto di proporne un ristretto ventaglio, sceverando tra quelle di una persistenza che va al di là della contingenza espressiva, dando la mia preferenza a quelle che hanno forti connotazioni strutturali e, per di più, sono in qualche modo dialetticamente consequenziali, come appunto mi par che sia per le strutture formali, i mezzi espressivi e i motivi squisitamente lessicali, in modo da offrire, seppur indicativamente, un’esemplificazione paradigmatica di discorsi ai quali artisti di diverse età e di differente formazione e geografia s’affidano. I discorsi prescelti sono sei, donde il titolo della presente rassegna, che appunto presenta sei sezioni quasi fossero le sei facce o facciate dell’esaedro, il quale è costituito, com’è noto, da sei quadrati. E siccome ogni quadrato contiene quattro angoli, ho invitato per ogni sezione quattro artisti, chiedendo a ciascuno di loro di stilare una breve nota sul tema che dà il nome alla sezione nella quale è inserito, in modo così da mettere a confronto, oltre alle opere, anche le idee dei quattro artisti (e stavo per scrivere quattro lati) di ciascuna sezione nelle loro divergenze all’interno della convergenza tematica. Ciò che ne risulta è una sorta di catena dialogica, non solo perché gli anelli delle singole sezioni si saldano idealmente l’uno all’altro per contiguità o contrapposizione, così che dall’incipit dell’ancestralità riemergente nelle Forme primarie si passa all’organizzazione razionale delle forme che s’affidano alla Geometria, mentre dall’immaterialità soffusiva delle cromie di Luce si trapassa alla consistenza cromatica del Colore, il quale a sua volta acquista sostanzialità fisica e tattile nelle lievitazioni della sua Materia, che è già un tentativo di dare una prima definizione d’oggettività alla pittura, oggettività che s’esplicita appieno, facendosi addirittura invasiva dello spazio circostante, nel Polimaterismo, istanza espressiva che dai tempi di Boccioni e poi di Prampolini s’è formata una tradizione piuttosto cospicua nell’arte contemporanea, e non solo italiana. Pertanto, così come gli angoli, i lati e ciascuna faccia o facciata dell’esaedro sono contigui ad altri angoli, altri lati e altre facce, anche gli artisti qui raggruppati non vanno considerati in questo caso a se stanti, ma sempre in rapporto sia agli altri tre della medesima sezione e anche ad altri delle varie sezioni. Quindi la mostra va letta, sì, come tragitto linearmente concatenato, ma tenendo sempre ben presenti tutte le intersecazioni e tutti gli scarti laterali  o in avanti e indietro che le singole presenze suggeriscono e impongono.

 

Facciata A: Forme primarie

 

Dalle tenebre di profondità coscienziali e psicogenetiche prendono sostanza le primarie conformazioni del campano Luigi Pagano per effetto di luci che nascono dall’interno della pittura stessa. Di fronte alle opere di Pagano sembra di assistere all’ontogenesi di essenze fantasmagoriche che cominciano a divincolarsi dal caos primigenio per far emergere, dopo il fiat lux, le folle e le individualità che riposavano inerti sui fondi del tempo e dello spazio. Pagano è in presa diretta con i bassifondi del suo Es e di esso riesce a restituirci i pilastri, i debordamenti magmatici che si propongono ora come popolazione di fantasmi o di affollate stalagmiti e ora come dita di un’enorme mano che afferra o s’aggrappa o come, per rimanere nell’associazione speleologica, dinamiche stalattiti; e riesce a farlo con una vis che mantiene tutte le energie del parlar simbolico dell’Es, appunto. Con Angelo Casciello, conterraneo di Pagano, le forme cominciano ad alludere a gradi superiori, ancorché primari, della scala di natura. Le evocazioni di radici e germogli primigeni, di ombre antropomorfe e di dentizioni gigantesche appartengono a un immaginario plastico che sa rielaborare in piena libertà inventiva sostanzialità fisiche e suggestioni fenomeniche con una manualità che felicemente sa ricucire la dimensione ancestrale dell’ homo faber a quella dell’artista che si nutre di contemporaneità. L’abilità dell’homo faber del resto, è spesso emergente nel lavoro degli artisti, e soprattutto negli scultori. Su di essa, ad esempio, ha fondato gran parte del suo discorso il romano Carlo Lorenzetti, che, lavorando a balzo lastre di ferro, alluminio, ottone e rame, ha saputo ottenere forme essenziali a metà via tra libera inventività e vocazione alla geometria, ma una “geometria diversa, e non meno rigorosa di quella dello spazio prospettico: una geometrica del fenomeno invece che del concetto”, come segnalava già nel 1972 Giulio Carlo Argan. Le forme di Lorenzetti hanno l’essenzialità organica che solo un istinto governato da una lucida ragione conosce. Esse sono elementari e allo stesso tempo complesse, appunto come organismi naturali, e proprio per questo possono dialogare tra loro in giustapposizioni che affidano tutta la loro pregnanza alloro equilibratissimo, quanto controllatissimo, gioco dei rapporti tra sagomature, prospicienze, rientranze, convessità,concavità e vuoti che ritmano le scansioni spaziali di ciascuna opera. Scansioni che rivelano una vocazione a spazi altri, quasi per il richiamo alle stelle insito nel ferro da Lorenzetti adoperato e che, come sta a testimoniare l’etimologia di siderurgia (= lavorazione del ferro), alle stelle (in latino sidm-eris) è connesso per ancestrali credenze e usanze, che qui sarebbe fuori luogo ricordare. L’urgenza dell’ esprit de geometrie comincia a farsi più evidente nel siciliano Pippo Altomare, seppur in forme tuttora ancorate a un “segno” di profondi echi simbolici, qual è il modulo a croce. Le croci di Altomare sono, tuttavia, ancora morfemi alla ricerca di un intimo equilibrio e di un perfetto assetto per ora solo agognati. Esse si agitano, come batteri in coltura, ora in spazi neutri e ora in spazi labirintici, i quali ultimi sembrano voler riprodurre in metafora visiva le contrastanti correnti formate da quel vasto mare che chiamiamo inconscio. E in questo mare navigano per raggiungere nuovi lidi.

 

Facciata B: Geometria

 

L’abruzzese Pasquale Di Fabio affida da qualche tempo la sua ratio geometrica alla piramide, forma di profonde risonanze storiche, matematiche e anche astronomiche, come le Piramidi dell’Antico Egitto stanno ad attestare, per meglio e più completamente esprimere la sua aspirazione all’alto, al cielo, per lui sinonimo di luce, di cui infatti egli impregna le bande verticali con cui decora le sue pittosculture. Il lavoro di Di Fabio coagula tre aspetti linguistici (pittura, scultura, architettura) in un’unica soluzione, per cui la pittura si spazializza, la scultura si colora e l’architettura incorona gli effetti illusionistici e le luci e le ombre propri ai due altri specifici espressivi. A differenza di tanti statici discorsi euclidei, Di Fabio dinamizza la geometria proprio attraverso giochi di luce e di verticalizzazione che unitamente alle sue dinamiche “appartengono alla grande stagione del razionalismo e dei suoi sogni di un nuovo ordine ed una nuova etica spirituale”, come ho avuto modo di sottolineare in una recente monografia a lui dedicata. Modularismo e architettura di forme geometriche costituiscono i binari su cui procede anche il discorso di Luigi Di Fabrizio, altro abruzzese che s’affida alle tecnologie del faber per costruire le sue eleganti agglomerazioni in acciaio inox. Pure Di Fabrizio ha alto il senso del disegno decorativo che attua a bande orizzontali, come in certe cattedrali del Due-Trecento, e con esse movimenta spesso i giochi di captazione, affidati alle superfici specchianti dell’acciaio, dell’ambiente circostante. Tale captazione riflette naturalmente anche la luce, ma raggelandola nell’asetticità cromatica dell’inox. Ciò che conta nel discorso di Di Fabrizio è la varietà delle forme e della loro positura che fornisce ulteriori inflessioni di rimandi speculari e di riflessi luminosi alle sue plastiche costruzioni geometriche. L’invasione dello spazio attuata dal marchigiano Franco Giuli con i suoi moduli di composito geometrismo tende sempre a un racconto che affida tutte le sue valenze alle ritmiche degli incastri e delle opposizioni delle forme a più punte iterate e alle scansioni dei colori variati su scale tonali. Sia che si abbandonino all’alt over sia che tendano a determinare contrapposizioni di punte e trasparenze per sovrapposizioni di loro parti, i moduli ideati di volta in volta da Giuli alludono a una volumetria più ideativa che visiva, cioè a una sorta di volumetria, per così dire, in negativo, che vieppiù viene sottolineata dalle stesure cromatiche piatte, che, mutatis mutandis, richiamano l’umanità marionettistica di Depero. Giuli in tal modo ha riassorbito antiche sue esperienze di tipo costruttivista, sempre basate sulla geometria e su inventate prospettive che venivano oggettivate nello spazio a determinare dinamiche tridimensionali di allusiva plasticità per il loro affidarsi all’ortogonalità dei piani anziché alle volumetrie dei solidi. Nel pugliese Ignazio Gadaleta la scansione geometrica è come celata all’interno della tessitura della pittura e appena dichiarata nella struttura dell’opera, formata da quadrati e da rettilinee segmentazioni di parte di esso. Nell’accostamento delle aste pittoriche in studiati parallelismi spazio reale e spazio pittorico vengono rigiocati continuamente nell’ambito di quelle virtualità plastiche che le fessurazioni determinano col loro mettere in vista le superfici laterali e le angolazioni create da essi, angolazioni sempre mutevoli a seconda del variare del punto di osservazione. Gadaleta ha inteso così fornire altri valori espressivi, collaterali ai tagli diagonali celati nell’orchestrazione segnica delle sue superfici dipinte, le quali per la loro monocromia sono contigui alla sezione Colore, così come, per l’aggetto delle paste cromatiche con cui sono letteralmente intessute, lo sono della sezione riferita alla Materia.

 

Facciata C: Luce

 

È per effetto della luce che i colori acquistano la loro differenziazione e modulazione. Ma è solo attraverso il colore e le sue modulazioni che in pittura si può ottenere la luce nelle sue più differenti declinazioni, che possono andare da quella liquida e umida della genovese Laura Mascardi a quella solare e allo stesso tempo carnale dell’umbro Romano Notari, da quella spirituale e mistica del lombardo Enzo De Grandi a quella venata e soffiata del veneto Gianni Ambrogio. Se la luce di Ambrogio, al di là delle sue radiografie di elementi vegetali di qualche allusività sessuale, sa farsi spettrale e ora addirittura evanescente sospiro, che ribalta totalmente le accensioni delle trasfigurazioni fitomorfiche nel carnale, la luce dai verdi acquitrinosi, talora grondanti umori crepuscolari nei sovrastanti viola gravidi di pioggia della Mascardi, si soffonde discreta, determinando spazi come sognati e sognanti, che in un lirico abbandono alle atmosfere serotine e umbratili riesce a restituire epifanicamente quei misteriosi rabbrividimenti della natura in certe magiche ore autunnali, quando il giorno sta per esalare l’ultimo respiro. Siamo agli antipodi del lampeggiare delle corrusche ore solari di Notari, che inonda del colore della carne i cieli, nei quali il pittore paganamente vede configurazioni mitiche, configurazioni che cominciano a prendere sostanza, ancorché nei toni sommessi e timidamente colorati, sin dall’alba che precede l’Aurora dalle rosee dita, come la definiva Omero. Notari è un affabulatore visionario, e pertanto non può fare a meno, come succedeva a William Blake, di vedere la luce colma di figure e configurazioni da essa prodotte. Cosicché nel suo rappresentare gli effetti della luce non fa che raccontare le storie e i comportamenti, talvolta anche licenziosi, di tali personificazioni, secondo la tradizione del sano antico paganesimo. E chissà se nelle storie di Notari si riverberano suggestioni del soffitto dipinto dal Baciccio nella chiesa del Gesù a Roma. Fatto è che molti dei suoi stilemi sembrano essere esemplati su morfologie care al pittore barocco. La luce in De Grandi, anziché di affabulazioni e “vapori” barocchi, come è in Notari, è matrice di simboliche simmetrie geometriche, che si fanno manifeste quasi fossero emanazioni di atmosfere mistiche. La luce di De Grandi parla sommessamente e usa un geometrico lessico astratto, perché è nell’astratto che il sacro meglio si esprime senza distrarre la mente con falsi simulacri. Il particolare sentire di De Grandi genera una sorta di luce come sfocata per una nebbiolina coscienziale più che visiva, per cui il suo cromatismo si intenerisce in tonalità da pastello.

 

Facciata D: Colore

 

Il colore si riaccende coll’abruzzese Claudio Verna, romano d’adozione. Verna fa pittura con e attraverso il colore di cui nel passato ha indagato a fondo la struttura, gli effetti in sovrapposizioni a campo pieno e certi impasti pigmentali, che lo fecero apprezzare come uno dei più significativi esponenti della Pittura-pittura. Da qualche tempo Verna è tornato a ridare importanza alla pennellata, ma sempre in funzione di orchestrazioni cromatiche, ora giocate per contrasto e ora modulate su gamme tonali. S’avverte sempre in Verna un particolarissimo piacere sensuale per il colore, che s’esplica sulle superfici nelle frante, frastagliate o scheletriche ritmiche delle stesure a pennellate larghe e immediate, ma sempre sicure. Non è certo il fitto pennelleggiare monocromatico di Sergio Floriani che attrae ora Verna. I tondi del pittore residente a Gattico sono parti di un discorso che, basandosi sui colori dell’iride, egli ha fatto sull’analisi degli anelli concentrici determinati dalla caduta di una goccia in uno specchio di acqua perfettamente circolare. Per questo i suoi tondi sono solcati all’interno da perfetti cerchi che alzano sempre un lembo per lasciar vedere il colore che sta sotto, che è in ogni caso uno dei colori dell’iride. Si tratta di un discorso post-concettuale che affonda le sue radici nel passato narcisiano di Floriani, quando la sua pittura era incentrata sulla doublure e sul rispecchiamento, il che me lo fece inserire nel drappello della “Narciso arte”, da me teorizzata in vari saggi e proposta in diverse mostre nel primo lustro degli anni Ottanta. Dallo stagno post-narcisiano di Floriani è d’obbligo passare alle onde alte della pittura monocromatica della torinese Renata Rampazzi, anche lei da anni fattasi romana. Le mutazioni monocromatiche della Rampazzi rivelano un altro aspetto di quel rapportarsi sensuale al colore. I rossi, i blu, ma anche i verdi, i neri, i violetti, i grigi delle sue mutazioni ondeggiano in continuazione, trapassando dalle tonalità chiare a quelle piene e intense con moti che determinano anche fessurazioni e ombre, talvolta allusive di certe pieghe e orifizi della carne. й chiaro che l’uso del colore attuato dalla Rampazzi è il risultato di un dettato fortemente lirico, ma di un lirismo che è scaturito da certe esperienze della passata stagione informale, di cui ella mantiene vivo il gestualismo e alcune lontane reminiscenze materiche. Anche il siciliano Salvatore Provino, approdato a Roma trent’anni fa, risente di talune morfologie informali. Ma il suo discorso è più che altro il prodotto di uno scavo nel corpo della pittura, di cui scortica l’involucro per andare, al di là della sua pelle, a scoprirne le interiora. Nonostante tutto il cammino fatto in trent’anni di lavoro, si possono qua e là ritrovare le tracce dell’iniziale suo interesse per i toni cupi di Sironi e Permeke e di quello successivo per la lezione del Cagli metamorfico. Ma Provino è temperamento esuberante del suo, e il colore nella sua pittura può montare fino ad accendersi di luci ocra e di avvampamenti rossi che rivelano un segreto interesse per culture antiche, compresa quella relativa agli encausti delle pitture parietali pompeiane.

 

Facciata E: Materia

 

Con Luciano Fiannacca, Alvaro Caponi, Ernesto Terlizzi e Roberto Donatelli entriamo nel regno del materico e delle declinazioni della pittura di matena. La materia di Fiannacca s’agita come lingue di fuoco al vento. Il furioso pennellegiare del pittore genovese esprime un personale Sturm und Drang che s’alimenta ancora del gesto informale. Lo spazio delle sue tele è come invaso da queste tempeste di materia-colore, la quale s’accavalla su se stessa per effetto di un vento generato dalla istintualità di cui è dotato e che egli ama lasciare libera e far procedere a briglie sciolte. Donatelli, dal suo canto, fa montare le paste cromatiche talvolta fino ad aggetti raggrumati di plastica consistenza. Anche lui s’affida al gesto ma, a differenza di Fiannacca, tende alla rastremazione delle pennellate e alla evidenziazione protagonistica di alcuni segni, tracciati o tragitti. Il suo modo di darsi agli impulsi del dipingere non è per nulla furente, ma è totalmente contemplativo, ancorché spontaneo e a presa diretta. Donatelli ha forte il senso dello spazio pittorico, e in esso si immerge ogni qualvolta vuole contrassegnarlo del suo passaggio con sciabolate cromomateriche cariche di vigorosa vitalità, seppur condensate nella materia, appunto. Memorie della lava rappresa del Vesuvio sprofondano nel nero certe zone delle esibizioni materiche del campano Terlizzi. Egli nei suoi impasti di materie diverse, tra cui pone anche strappi di differenti carte vetrate, ricostruisce, sempre emblematicamente e fantasticamente, vedute di paese, per cui le sue scansioni orizzontali alludono alla separazione di cielo e terra. Ma Terlizzi è, a suo modo, un visionario della materia, e pertanto ama anche costruirsi le sue Veroniche della materia. E infatti non di rado realizza le sue opere su grandi jute, come fossero lenzuola,