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L’Immaginazione Lirica, (testo di G. Di Genova), catalogo della mostra, Galleria La Margherita, Roma, 27 gennaio-24 febbraio 1973.
 
 
 
   

Il lirismo, in un mondo dominato dalla tecnologia e dal collettivismo di massa come il nostro, non è certo latitante. Anzi, per quel che riguarda l’arte, pur nonostante tanti allineamenti — non sempre negativi — ai linguaggi delle comunicazioni di massa e altrettante concessioni alle tecniche spersonalizzate, esso costituisce ancora una risorsa cospicua; e più di quanto non si possa pensare in quest’epoca di ritorno alla pura registrazione ottica della visione. Per cui è nel Iirismo anche che va reperita quell’istanza positivamente attiva di far arte in opposizione a tanta passività oggi imperante e in qualche caso imposta, spesso con intenzionalità d’ipnotizzamento delle coscienze in modo da preparare il terreno ad altri tipi di passività. Il lirismo, dunque, è un modo di ribadire la propria esistenza e di salvaguardare l’esigenza di esistere in «prima persona»; può essere anche per l’immaginazione uno dei sostegni cui aggrapparsi per non farsi sommergere o soffocare dalla dittatura dei mass media e dei messaggi sempre più codificati. È pertanto uno spiraglio comunicativo, di comunicazione genuina e reale tra tanta incomunicabilità o falsa comunicatività. Nell’ambito della presente mostra si son voluti proporre taluni aspetti di lirismo con una varietà d’intonazioni che possa in qualche modo riuscire esemplificativa nei confronti delle numerosissime possibilità di lirismo.

    E non è per caso che si sia voluto iniziare da quel lirico impegnatissimo, sia a livello del linguaggio che dell’ideologia, che fu Gastone Novelli. Il gruppo di opere, tutte inedite, che qui si presentano come piccolo omaggio al compianto pittore, si riferiscono ad un momento di transizione della sua vicenda artistica. Il 1958 è un anno particolare per il segnismo romano che, com’è noto, aveva preso l’avvio poco meno d’un decennio prima per impulso di Corrado Cagli. È, infatti, già un anno di crisi, o meglio di evoluzione verso altri esiti, specie per Novelli e la cerchia dei suoi amici, ai quali da poco s’era aggiunto lo statunitense Twombly, da poco trasferitosi a Roma. Del resto Novelli aveva già dimostrato di voler andare al di là del puro gesto, ricercando nel segnismo una possibilità di comunicazione alfabetica, esigenza che non l’abbandonerà mai neanche nel decennio successivo della sua attività, come è comprensibile per un appassionato glottologo quale egli fu (non va dimenticato che è nel lasso di tempo che vide la realizzazione di quella sorta di guida all’alfabeto intitolata «Scritto sul muro», che gli inediti qui proposti furono eseguiti). In definitiva, come ebbe a scrivere lo stesso artista di se stesso proprio nel 1958, Novelli «trae, porta il gesto nel senso». Ed è da questo presupposto che scaturirà tutta la sua successiva produzione che si configura sempre più in esperienze, sovente non lontane da Klee, di narratività immaginosa pregna di delicatezze fiabesche, in cui veniva recuperata e rivissuta originalmente la tradizione del grafismo secessionista della scuola viennese, cui per nascita e formazione Novelli rimaneva legato. Che ci sia una buona dose di abbandono alla vitalità scaturente dal subconscio nel segnismo di Novelli è evidente in queste opere forse meglio che in altre. La volontà di trarre un senso dal gesto non è per Novelli un’operazione mentale, ma un sondaggio semiautomatico che giunga ad una sintesi di tutto il suo essere e di tutti i suoi sostrati, una sintesi, insomma, in cui predisposizione al grafismo, interesse per la lingua Guarani, cultura secessionista, reminiscenze d’astrattismo, esperienze di poesia visiva, tendenza all’esoterico si congiungono in un coagulo che diviene risonanza coscienziale e allo stesso tempo bisogno di libertà, non soltanto interiore. «Pesco dentro a me e fuori e qualche volta mi capitano fra le mani delle immagini, tutto ciò attraverso la nebbia che mi mette ogni giorno in balìa di me stesso velandomi tutte le cose, me compreso», aveva scritto Novelli sempre nel ’58, fornendo già delle indicazioni utili a farci comprendere la particolarità del suo lirismo, sempre proteso verso la libertà, al di là di quella «nebbia» che lo obnubilava e che egli seppe poi trasporre sulle sue tele, trapunte dalla trama dei suoi segni, con quei bianchi favolosi, davvero unici nella pittura contemporanea italiana.

    Una qualche tendenza al fiabesco è reperibile anche in Umberto Buscioni, pittore incantato quanto incantevole, di misteriose presenze. L’ottica di Buscioni scaturisce da un particolare impatto con la realtà, vista attraverso una sorta di ingenuità disarmata. Si tratta d’un lirismo sognato a occhi aperti, del lirismo, cioè, d’un pittore che riesce a stupirsi di fronte ad ogni filo d’erba di un mondo perennemente alitante, in cui l’essenza è come presa per i capelli dall’apparenza. È da ciò, credo, che le opere di Buscioni, nonostante raffigurino sempre immagini riferite all’uomo e alla natura, dànno la sensazione d’una fatale assenza di realtà. Tutta la sua pittura è una sorta di antitesi perenne, non solo dell’essere e dell’apparire, ma anche della forma e del colore, per cui tutto si sfuma e si decanta, quasi volesse sfuggirgli di mano. Teso alla ricerca del bandolo di tale instabilità ontologico-percettiva, Buscioni si sofferma sui particolari, forse perché essi meglio riescono a illuderlo sulla possibilità d’una interrogazione indagatoria del mondo che gliene provi l’esistenza oggettiva, quella esistenza che egli sospetta e riesce a intravvedere sempre, con suo sommo stupore, come un miracolo compiuto dalla propria immaginazione. Ed è per questo, forse, che quasi con timidezza Buscioni dipinge le sue immagini, affidandole in principal modo ad un grafismo di gran sottigliezza, che rimane l’elemento principale della sua espressione assieme al suo modo di usare il colore in tonalità pallide, quasi per non disturbare il delicato impianto grafico cui affida le sue immagini. Natura più particolarmente grafica è Bruno Canova, autore di immagini volanti di discendenza onirica.

    L’onirismo di Canova, tuttavia, è così analitico che ogni sua visione non è altro che un affastellarsi di oggetti della realtà quotidiana, di memorie personali, di reminiscenze colte, tutti sciorinati in uno spazio immaginario senza alcun nesso, se non quello di un generico quanto generoso analogismo. Ne scaturisce una narrazione accumulativa fino alla sovrapposizione, in cui per una particolare levitazione ed essenzializzazione disegnativa delle immagini si realizza come una fluttuazione del reale ricco di sostrati autobiografici. Visione attuale e visione remota s’intricano fino a confondere immagini della realtà e criptomnesie d’un io che si identifica non di rado con ciò che gli fornisce lo spunto, come ben si può vedere nel sogno della bimba, nel quale le interferenze dei ricordi di infanzia dell’artista non sono poche. Canova fornisce, così, un’autobiografia a brandelli d’immagini, in cui le coordinate del presente e del passato finiscono con l’identificarsi in un’ «aura senza tempo» che si sintonizza sull’onda della psiche per uno scandaglio del subconscio, visto questo con l’ottica della coscienza che, seppure liberata dai consueti freni inibitori, gli permette un’esattezza disegnativa particolare.

    L’immagine viene invece ridotta ai minimi termini della larvalità da Valeriano Ciai che ha portato alle estreme conseguenze il tonalismo romano, da cui è partito, giungendo in anni di lavoro ad una sorta di chiarismo che, considerate le radici, sarebbe giusto definire romano. Ciai nel corso della sua vicenda pittorica ha toccato il fondo della dissipazione dell’immagine in opere in cui il bianco era dominante supporto di saette segniche di colore. È da quelle saette che l’immagine pian piano s’è andata ricostituendo, segno su segno, stesura su stesura, pittura su pittura, fino agli attuali risultati. Operazione del tutto mentale, la pittura di Ciai è caratterizzata da una luminosità che nulla ha di fisico, ma che scaturisce da quel filtro coscienziale attraverso cui Ciai passa tutte le sue immagini, riducendole allo stremo e spogliandole d’ogni peso di realtà oggettiva al punto che è più esatto parlare per la pittura di Ciai di fantasmi di immagini anziché di immagini vere e proprie. In una continua interiorizzazione delle sollecitazioni esterne, anche visive, Ciai raggiunge una sorta di annullamento dell’apparenza a tutto favore della più pura essenza. Il rapporto soggetto-oggetto si consuma a livello di coscienza, privilegiando la soggettività che sa i massacri e la morte, ma aspira all’abbraccio del corpo e alla contemplazione della città in una particolare ottica della coscienza più che della visione. Ed è da questo gran crogiolo, che è la coscienza di Ciai, che scaturisce il suo lirismo, un lirismo dove il segno si fa colore, il colore si fa moto della coscienza e il moto della coscienza si fa memoria di luogo o larva di immagine palpitante.

    Inversamente a Ciai, Marco Gastini tende più all’apparenza che all’essenza; ma ad un particolare momento dell’apparenza, quello essenzialmente percettivo. Per tale ragione è sull’epidermide che Gastini indirizza la sua attenzione di pittore, e fino alla dilatazione percezionale che ne metta in evidenza la struttura e la tessitura della pigmentazione. Ciò gli permette di condurre un discorso cromatico d’alta liricità, in cui la vibrazione cromatica raggiunge l’acme. Gastini, tuttavia, è un lirico che non si perde mai nel suo lirismo, ma che anzi lo controlla con estremo rigore fino a rendere i suoi dettagli configurazioni geometriche in una sorta di astrattismo che tale può essere detto solo per certi precisi andamenti dei confini dell’immagine, e non certo per la natura delle immagini stesse che mantengono, pur nella estremizzazione percezionale, che vuoi essere ancora e in qualche modo racconto, un preciso valore fisico. In realtà ciò che interessa a Gastini è la circoscrizione del dettaglio intesa come inquadratura, sottolineatura evidenziatrice al servizio della fisicità dell’immagine, tanto che da qualche tempo egli è approdato alla neutralizzazione visiva del supporto delle sue immagini, ricorrendo alla sostituzione della tela con superfici di plexiglass (la poetica del frammento, già tipica di tanto informale, qui assume un valore di nuova presenza che è anche nuova conoscenza). Chi ricorda le opere di esordio di Gastini può meglio intendere sia il valore di questo dipinger per particolari ritagliati, sia il senso di questa tendenza narrativa, seppure liricizzata al massimo, sia la specificità dell’ottica ravvicinata tipica delle opere di Gastini che qui si presentano.

    La «perdizione» lirica è, invece, l’elemento caratteristico del discorso di Emanuele Grassi; il quale si affida ad un automatismo che già ebbi a definire psicodinamico. Grassi non conosce il mondo esterno, non sa (o non vuole sapere) nemmeno che cosa voglia dire ottica. Il suo mondo è il proprio io, il suo tempo è quello delle lontane origini dell’uomo, nelle quali erano ancora vive le memorie del caos originario e del dolore della nascita. Tutta la sua produzione è una pervicace ricerca delle origini perdute, attuata attraverso un abbandono totale agli impulsi interiori, che lo riconducano agli inferi del proprio io. Sorta di speleologo della psiche, Grassi s’avventura nei labirinti dell’inconscio, descrivendone gli andamenti labirintici, le zone buie e le luci, i sussulti e i brividi, le variazioni e le vibrazioni. Ne scaturiscono delle vere e proprie mappe e orografie dell’inconscio, dal quale Grassi riesce a far riemergere i più riposti moduli primigeni, i simboli aviti, i segni ancestrali, le memorie preedeniche, mettendo così a nudo le viscere della coscienza, della propria coscienza in cui impulsi mistici e predisposizioni filosofiche si mescolano dialetticamente in una disperata ricerca d’una ragione alla propria soggettività, che sul piano espressivo raggiunge una strabiliante varietà di risultati, ottenuti per una addizione dialettica di stili: segno serpentino, linea fratturata, svirgolatura sincopata, modulo vermicolare, cellularismo segnico, incastro tissulare, arabesco favoloso concorrono ora separatamente, ora unitamente a caratterizzare la «perdizione» lirico-introspettiva di Grassi, accurato esecutore di vere e proprie tavole anatomiche dell’io.

L’elemento fondamentale dell’espressione di Romano Notari è la linea curva. Notari, tutto proteso a cogliere il senso cosmico dell’esistenza, punta sul curvilineo che ben riesce a rendere la sua simbologia di uccello-occhio-sole. In questo modo egli intende realizzare la sua descrizione del cosmico e la sua vertigine dell’essere. Tutta la sua pittura può essere intesa come una indagine astronomica dell’io di cui ogni quadro è una costellazione. Per curve e circonvoluzioni Notari confessa la sua aspirazione al sublime, al sommo apice dell’essere in un gorgo lirico che ha, come qualcuno ha indicato, del mistico. Tuttavia il visionarismo di Notari è il risultato d’una particolare posizione nei confronti del reale, posizione che non è prevalentemente spirituale ma fisica. Arretrato il suo punto di vista, Notari «vede »con quella che definirei retroottica, cioè con quello strato visivo che è alla base o al di qua dell’ottica e nel quale si possono percepire solo gli elementi fondamentali e in primo luogo la sensazione luminosa. Ecco perché tutta la pittura di Notari è una sequela di fantasmaqorie luminose, di coaguli circolari di occhi e derivati. Nella pittura di Notari l’occhio giunge a una percezione di immagini instabili, ma continuamente ritornanti, come quando lo sguardo rimane abbagliato da una fonte troppo luminosa come il sole, che; annichilendone le possibilità proiettive, lo blocca in se stesso fino alla percezione di se stesso, ossia delle immagini che permangono in se stesso. La pittura di Notari è anche l’autopercezione dell’occhio, in quanto organo di visione, che vede i propri impulsi. A tale auto percezione Notari giunge per processi mentali, arretrando la sua posizione visuale e ancorandola alla retroottica, che è ancora un tramite di visione fisica, ma ormai incapace di dare immagini definite. Ne scaturisce una sorta di limbo della visione, in cui il visionarismo di Notari trova un’atmosfera adeguata per quella possibile instabilità tra apparizione e apparenza, tra simbolo e modulo,tra abbacinamento visivo e percezione coscienziale. Si noti che, pur tra certi andamenti baroccheggianti, del tutto in linea col discorso sulla luce che Notari va conducendo da anni, è il colore della tenera carne, delle intimità carnose che Notari riecheggia nelle sue delicate tonalità, ed è per questo, che nonostante ogni sublimazione spiritualistica, la pittura di Notari rimane preqna di tentazioni fisiche, con sugqestioni anche di erotismo, di un erotismo tuttavia trasposto a livello di contemplazione fortemente liricizzata a tal punto da assorbire tali sostrati, che tuttavia rimangono in residuo come attestano anche il senso di vertigine e l’aspirazione al sublime.

    Come per Notari, anche per Franco Sarnari è fuori luogo parlare di carnalità, nonostante da anni egli dipinga immagini di nudi. La dimensione del lirismo di Sarnari è tutta ottica, quasi fotografica, ma di un fotografismo pittorico che è fatto cospicuo in un periodo in cui gran parte dei giovani pittori rinunciano alla pittura per l’‘immagine schematica dovuta all’uso senza fantasia del proiettore. Sarnari, come anche Gastini, ha piegato alle sue esigenze quella poetica del frammento, tipica di tanta pittura dell’informale. Ma è affidandosi alla dimensione unica e univoca deIl’ottica apparentemente oggettivata che Sarnari giunge a un proprio lirismo, basato sulla purezza della visione e sulla sobrietà del cromatismo. Tuttavia si tratta sempre d’un cromatismo, seppur ridotto ai minimi termini, mai inerte in virtù di quella sorta di pigmentazione, ottenuta con il picchiettare in punta di pennello la tela, con una sorta di pointillisme rivisitato e corretto sulla scorta, appunto, della nuova visione scaturita dalla fotografia e dal cinema. Sarnari sa essere lirico nell’immagine oggettiva, proprio per il suo spingere oltre l’oggettività la visione dell’immagine oggettiva. Il suo è, quindi, un lirismo estroverso, che si basa sulla concretezza della realtà e sulla possibilità di poeticizzarla attraverso l’ottica individuale fino a farle subire uno scatto interpretativo che possa elevare l’immagine alla dimensione metafisica. Nella pittura di Sarnari c’è sempre la memoria della realtà oggettiva, anche se tale oggettività si sfoca nell’impatto con un’ottica altamente soggettiva che finisce con rimpastarla di lirismo pur senza farle perdere la sua concretezza strutturale a livello della visione. Quello di Sarnari è un lirismo sillogistico, se si vuole, basato sulla pura percezione ottica appannata dal sentire individuale, un lirismo moderno, nel senso che non vuol essere dimentico dei mass media tipici del nostro tempo, nè della lezione pop; ma è soprattutto, in definitiva e al di là di ciò, un lirismo tutto proteso a ricostruire ciò che la vita quotidiana distrugge, sia a livello di immagine che di percezione, tutto proteso a voler rivitalizzare ciò che l’esistenza di routine banalizza, col fine di recuperare la vibrazione personale, Paura sentimentale, la partecipazione comunicativa e il contatto emotivo con ciò che è fuori di noi, ma fa parte di noi e della nostra esperienza di vita, cioè con tutto ciò che il vivere odierno sterilizza e ci nega come esperienza realmente vissuta. Per questo Sarnari punta soprattutto al «momento d’amore», che tra tutti è ancora quello da cui si può ripartire per una riconquista delle proprie sensazioni, per una rivitalizzazione della compartecipazione sia tattile e visuale che psicologica e sentimentale, insomma per il recupero del proprio essere in un coinvolgimento totale delle prerogative umane, esaltate nell’unico abbandono partecipativo in cui è possibile ritrovare il significato, percependone il mistero, della magia dell’esistere.

    Se Sarnari è alla costante ricerca della fissazione visiva delle sensazioni più intense e vitali, Roberto Vaiano è alla costante ricerca d’un autoannullamento sentimentale per il raggiungimento d’una simbiosi con la natura che esalti la sua ottica cromatica. Più che per forme, infatti, Vaiano vede per colori, e non ha altra percezione se non quella cromatica, in una sorta di fauvisme portato alle estreme conseguenze della visione. Il suo atteggiamento è pannaturalistico, la sua realtà un mondo da primordio in cui l'uorno non può ancora vivere. Lirismo tutto basato su valori primari, quello di Vaiano gronda di umori mediterranei. La memoria delle sue origini meridionali è sempre vivida in Vaiano a tal punto da permeare tutta la sua pittura da sempre. Si possono trovare, nella produzione di Vaiano delle variazioni di luce, dei momenti di più acceso cromatismo, svariante dal vangoghiano al bonnardiano al matissiano, si possono incontrare intenerimenti e stupori sia nei cicli che nei mari che nelle vegetazioni; ma è sempre sotto il sole mediterraneo che la sua pittura si sviluppa. La ricercata simbiosi con la natura e la sua aspirazione al pannaturalismo hanno alle spalle i luoghi della mitologia classica della sua terra d’origine, mentalmente spopolata sia degli uomini che degli dei e costantemente illuminata dal sole d’una eterna estate. Si può, volendo, cogliere un sottile bisogno di esotismo in questo continuo «sogno di mezza estate», che finisce con l’essere un sogno d’esotismo autoctono dell’immaginazione di Vaiano, un sogno di esotismo mediterraneo per uno che è nato in una terra bagnata dal Mediterraneo e non sa fuggirne neanche immaginativamente, tanto da reinventarla ogni volta per vederla come mondo agli albori duna età del l’oro tutta ancora da consumare.

    Anche Jack Zajac è fortemente attratto dalla natura, solo che per lo scultore statunitense è l’elemento del simbolismo astraente a costituire il cardine su cui poggia il suo lirismo. Zajac non è interessato all’aspetto fenomenologico della natura, ma al suo continuo mutare, attraverso cui è possibile coglierne l’essenza. Egli interiorizza le immagini recepite attraverso l’ottica, per raggiungere il loro concentrato formale e ontologico, libero da ogni accidentalità esteriore. È il lirismo della facoltà astrattiva che prende sostanza nelle sculture di Zajac, il quale punta al puro sia nelle immagini che nella realizzazione, con un’adesione alla dialettica di natura che si traduce in una dialettica produttiva, in cui il soggetto ritratto, sia esso filo d’erba, sia cigno, mandorla o rivolo d’acqua, assurge a entità assoluta, a idea esemplare d’un mondo continuamente reinterpretato con gli strumenti d’un lirismo radicale, riduttivo nelle forme quanto più intensamente significante nell’immagine. Realizzazioni plastiche d’una concezione tendente alla forma pura e liricizzata al massimo, le sculture di Zajac riescono a cogliere il fremito del movimento e l’instabilità di ciò che fluisce, in definitiva esprimono il mistero della natura attraverso forme chiuse e concrete, che spesso risultano una sfida alla fissità della scultura sia per la loro varietà di movimenti e sia per la simbolizzazione talmente liricizzata da contraddire dall’interno la materialità oggettiva delle opere stesse. La tendenza alla forma pura e all’andamento essenzializzato da a tutta la produzione di Zajac una peculiare tendenza allo spirituale che, nel momento in cui s’adegua al dato di natura, travalica la percezione della natura stessa, per coglierne il più profondo senso, cioè quella risonanza atavica e misteriosa che vibra nell’intimo dello scultore. Con questa breve escursione nelle zone dell’immaginazione lirica s’è tentato qui di esemplificare l’assunto iniziale secondo cui il lirismo può interessare i più diversi discorsi e atteggia- menti artistici, continuando ad essere, come in effetti è, un filone costitutivo dell’arte contemporanea, un modo di non tradire se stessi, una necessità di ribadire le ragioni del proprio sentire o, per parafrasare il poeta statunitense Jack Rainsberger, «Un bisogno. / Una malattia comunicabile. / Uno sforzo fuori dell’eccomi qui».

 

Giorgio Di Genova